Da qualche giorno e non solo per motivi contingenti, sto ragionando sulle parole degli altri, su libri altrui, su parole che mi sono rimaste dentro e che hanno, in qualche modo, contribuito a farmi scrivere le storie che ho scritto.
Una questione da lettore, quindi.
E non si può diventare scrittori senza essere e essere stati voraci lettori.
In contemporanea, però, e per ragioni diverse, è partito un ragionamento sul mio lavoro di scrittore, sulle sue difficoltà, sul modo in cui farlo o non farlo, una chiacchiera che, come mi capita spesso, ha coinvolto le persone che mi stanno vicino, amici, compagni di viaggio su binari simili o identici e che ha finito per intersecarsi con il gran chiacchierare di letteratura e storie che mi pare di aver visto crescere online, forse con la complicità dell’annuale momento Strega.
La letteratura cambia la vita delle persone? Apre orizzonti inesplorati, permette di far conoscere nuove idee, nuove prospettive? Fa sognare, viaggiare, sperare? Fa politica, aiuta a capire la società?
Suppone mondi possibili, scenari da evitare, prospettive allettanti o inquietanti e altrettanto verosimili?
Tutto questo, certo.
È innegabile che sia accaduto, i tempi verbali non sono un caso. Ma accade ancora?
È anche vero che non sempre quello che si considera letteratura in un’epoca è stato considerato tale dai suoi contemporanei. Dickens era adorato dalle folle, ma ritenuto uno scribacchino dai contemporanei. Sull’importanza di Stephen King nella letteratura mondiale si comincia a ragionare solo da qualche anno e ancora oggi quando mi capita di dire che It sta sullo stesso piano di David Copperfield e Oliver Twist, vedo facce stranite o perplesse.
Il punto, però, è molto più complesso e se un Paese si misura anche da chi ritiene i suoi intellettuali di riferimento, allora bisognerebbe guardarci intorno, ricordarci che abbiamo avuto Pasolini e Ungaretti e Montale e Pavese e Bufalino e Moravia, tutta gente che vendeva pure bene e iniziare il ragionamento da lì.
Qualche settimana fa ho sentito Stefano Benni dire che la sua vita da lettore, ora, si svolge per lo più fra riletture, che non gli interessa leggere libri di personaggi, ma di scrittori. Lì per lì la riflessione mi è sembrata vera, ma un po’ tranchant, tipica del suo autore, ma mi è capitato di rifletterci nei giorni successivi.
Avevo appena finito di leggere L’amica geniale, il primo capitolo – non saprei come altro definirlo – della quadrilogia di Elena Ferrante, autrice che adoravo quando la conoscevano in pochi e su cui invece mi interrogo, narrativamente parlando, da alcuni anni.
Il momento era il peggiore per la mia parte lettore, quello in cui scegliere il prossimo libro da leggere. Alla fine ho preso in mano Celine, Viaggio al termine della notte, che avevo adorato secoli fa, le alternative erano un vecchio Rushdie, Tre sono le cose misteriose di Avoledo e I demoni. Tutte, a parte Rushdie, riletture. E prima della Ferrante c’era stato Cecità, anche quella una rilettura.
Così, con Celine fra le mani, mi è tornato in mente Benni e il fatto che qualche mese fa ho ricomprato Il nome della rosa, perché vorrei rileggerlo e una vecchia conversazione di un anno fa con un mostro sacro dell’editoria italiana con cui ci si scambiavano consigli su cosa leggere, scoprendo che era difficilissimo e ho cominciato a chiedermi che cosa stiamo facendo, noi tutti che ci occupiamo di libri. Editori, scrittori e anche lettori.
E mettendo tutto insieme, è arrivata la domanda. Provocatoria, è chiaro.
Ha senso parlare ancora di letteratura?
Perché se la letteratura è quella da cui siamo partiti, allora dov’è finita e soprattutto a chi interessa, chi se ne occupa?
Badate, non sto facendo il solito discorso sull’editore cattivo che non pubblica i capolavori, ma solo porcherie e rifiuta milioni di potenziali Gadda e Morante, ma sul ruolo della letteratura e del romanzo e della parola scritta nel nostro mondo. Sullo spazio possibile, disponibile addirittura, in una realtà che ha ridotto il tempo di attenzione, il desiderio di perdersi in altri mondi e la capacità di vedere al di là di un immutabile e perpetuo presente.
E il nostro presente, il qui e ora, è la morte della letteratura, che la si intenda come sogno, visione, narrazione, impegno ha poco importanza.
La parte di me che fa l’ingegnere tende alla praticità, senza tanti voli pindarici e così provo a restare ai numeri.
I romanzi alti – intendendo l’aggettivo nel senso della lingua, dell’originalità della storia o della struttura, delle tematiche – non si vendono.
Dimentichiamo la percezione che se ne ha nel nostro piccolo mondo di vampiri assetati di storie e che vivono di libri e rientriamo nel mondo reale, quello che conta sul serio.
Usciamo dalla sensazione e occupiamoci di realtà.
Stiamo parlando di qualche migliaio di copie a essere gentili, a volte anche meno. Non solo insufficienti per farne un lavoro vero – che presuntuosi questi scrittori che vorrebbero anche camparci – ma poche per un meccanismo industriale che deve far fronte a costi non indifferenti e reagisce ringhiando.
Credo che la reazione dell’editoria sia sbagliata, sperperi risorse nella direzione del muro e non dell’uscita, lavori sulle cifre ignorando i contenuti, si ostini – come parte del mondo economico – a considerare questa fase una crisi – e quindi transitoria – e non una trasformazione sociale – e quindi irreversibile –, ma parta da un dato di fatto indubitabile.
La letteratura non vende.
Ossia – e su questo bisogna riflettere – i lettori non ci sono.
Di solito, quando faccio questa osservazione, arriva un brulicare di mani alzate vere o metaforiche, a testimoniare l’esistenza di un pubblico attento, desideroso di qualità e in attesa di trovarla.
E la mia reazione è di due tipi.
Se sono di cattivo umore, faccio lo scettico. Se cercate tutta questa qualità, se siete tutti in cerca del nuovo capolavoro delle lettere, com’è che comprate così poca roba buona (perché ce n’è, in tutti generi, in tutte le lingue, per tutti i gusti)?
Se sono di buon umore, invece, do quella che mi sembra la risposta più vicina alla verità. Siete pochi, non siete abbastanza, un mercato di nicchia nella migliore delle ipotesi.
Ecco il punto, la nicchia.
Che destino culturale ha un Paese in cui la letteratura è un mercato di nicchia, economicamente non sostenibile?
E, di conseguenza, cosa resterà fra vent’anni di quello che è stato scritto negli ultimi dieci?
Se in sostanza non si lavora più sul catalogo, ma solo sulla novità, che va cotta, mangiata, venduta e resa in pochi mesi, che deve essere facile commercialmente e viaggiare a livello del suolo in tutti i sensi, quale peso può avere quello che si scrive e che destino c’è per la scrittura, per il lavoro sulle parole, sulle storie, sui contenuti, sui punti di vista?
Su questo, secondo me, varrebbe la pena di riflettere.
I discorsi sulle storie da raccontare, su quanto siano belle, su quanto facciano bene alla vita della gente, alla società, su quanto ne abbiamo bisogno – e ne abbiamo un maledetto bisogno – lasciano il tempo che trovano o servono a riempire qualche cartella in bella lingua e a farci sognare, magari facendo riferimento a autori e romanzi vecchi di almeno vent’anni (chissà perché).
Ma è come occuparci del guanciale nella carbonara durante una carestia.
Perché se non risolviamo o miglioriamo il problema a monte – e anche se vi pare brutto sto parlando di denaro –, la letteratura per come la intendiamo avrà ancora meno spazio, sarà conservata in una piccolissima ridotta e finirà per diventare ancora più ininfluente di quanto non lo sia ora.
Siamo tutti innamorati del professore Keating – parole e idee possono cambiare il mondo – ma la sensazione è che, tirando la riga del totale, di quelle parole che potrebbero cambiare qualcosa, anche solo uno sguardo, non ce ne freghi nulla o quasi nulla. Più semplice far finta di indignarci per la morte della lettura, la cattiveria degli editori, tirare a indovinare sul prossimo vincitore dello Strega e cambiare lo status del nostro social preferito. Basta un telefonino, si fa alla svelta. Clic.
Non devi nemmeno perdere tempo a girare le pagine.