Uscito sul Corriere della Sera di Bologna, martedì 13 settembre.
L’uomo scivola nel vuoto. Nella foto sembra immobile, la camicia avvolta sul tronco, i pantaloni scuri una macchia di colore. Ha i capelli chiari, le mani distese lungo i fianchi, indossa un paio di scarpe marroni e sono sicuro che tenga gli occhi aperti. Se non sapessi con esattezza dove è scattata quella foto, potrei pensare a un gioco, una scommessa, un tuffo dalla scogliera a testa in giù, per provare il proprio coraggio o soltanto farsi un bagno. Degli ultimi secondi di vita di quell’uomo immagino il silenzio. Il nulla, intorno alla caduta. Il frastuono che ha per forza circondato gli istanti precedenti, di colpo annullato dalla decisione che ha preso. Cadere nel vuoto, per trenta piani. Cadere nel vuoto per non morire fra le fiamme, le lamiere, per lasciarsi alle spalle il fumo, la morte. La solitudine del cielo di settembre, il sussurro di un corpo e poi due, dieci, venti, chissà quanti, che rompono il silenzio di una giornata troppo azzurra. La fuga dalla vita, per scappare dalla morte. Dieci anni dopo quel giorno di settembre, Barack Obama dice che il suo è un Paese più forte. Da allora e in nome di allora, sono nate due guerre. La prima per catturare un uomo che non era lì. La seconda senza nessun legame con quanto era accaduto. Ripensandoci oggi, mentre il silenzio che circondava quel corpo è diventato l’omaggio commosso di chi è rimasto, fatico a credere in un mondo più forte. Un mondo che odia e teme il diverso, che proclama guerre e battaglie in nome di Dio. Che allarga i confini e sigilla la porta di casa a tutto ciò che non capisce. Lo specchio perfetto di quel mattino americano, in cui sembra impossibile staccarsi dal suono del silenzio.