Ci riempiamo la bocca di parole che hanno cambiato significato.
Merito, inciucio e curriculum sono i vocaboli del nostro tempo e una delle conseguenze peggiori di questi anni inconsapevoli e distratti è aver prima sciupato, poi confuso e alla fine modificato in maniera radicale il significato delle parole. Da lì è venuta l’applicazione pratica, il calare nel contesto della realtà un significato che non ha più niente di reale. Un po’ come decidere che un asparago serve come cotton fioc.
Nelle sue linee generali e disegnando un quadro a tinte apocalittiche che condivido, ne scrive oggi Bracconi sul suo blog (dare una scorsa anche ai commenti è edificante).
Molto di quello che accade, però, mi sembra derivare dalla parola merito, che si porta dietro anche la questione del talento.
L’uno vale uno di cui sentiamo parlare tutti i giorni per motivi politici, è il risultato di una declinazione che utilizziamo da molti anni e che, alla fine, ha raggiunto l’osso. Un po’ come un batterio carnivoro che da dentro lavora con cura e voracità la polpa, finché del corpo non resta che una carcassa vuota.
Nell’uno vale uno non c’è traccia di merito, solo di semplificazione. Se valgo quanto te, in ogni campo, posso giudicare quello che fai e non ho bisogno di conoscenze o esperienza, non ho bisogno di informazioni, solo di semplicità.
Basta guardarsi intorno: cerchiamo risposte facili a una realtà molto complessa, spesso fatta per specialisti, specialisti che quell’uno vale uno mette alla lavagna, in attesa di giudizio, quasi sempre senza avere le basi per fornirne uno critico, ma degradando la specializzazione a ingombro, la tecnica a superfluo, il talento quasi a presunzione, da ghettizzare o annullare. Così, ad esempio, si possono leggere recensioni a Delitto e castigo in cui si critica una lunghezza eccessiva di qualche centinaio di pagine, allo stesso modo in cui si stronca Ternitti concedendo a Desiati un certo talento, si discute di Costituzione senza conoscerne gli articoli, si confonde nuovo, novità e nuovismo, o gioventù e giovanilismo o si usa il termine inciucio per denigrare stuprandola la vera necessità della politica, la capacità di trovare un accordo equo fra le parti.
Parole tratte con l’accetta, per il solo desiderio di fornirle senza vergogna, che non sono diverse dalle argomentazioni che cita Bracconi e che portano, all’estremo, Roberta Lombardi a dire che vaglierà il curriculum di Gustavo Zagrebelsky o Stefano Rodotà, senza porsi il problema se ha, lei per prima, il curriculum adatto per il vaglio.
Non c’è nulla di meritocratico in un individualismo spinto così all’eccesso, solo la necessità di affermare – spesso con toni da peggiore bar di Caracas e senza ammettere repliche – il proprio diritto a dire qualcosa e trovarsi al centro della scena, operando con tenacia l’ennesimo passo verso la semplicità assoluta, una realtà in cui tutto è così ridotto all’osso che basteranno pochi vocaboli per rappresentarlo e studiare sarà inutile, perché la conoscenza stessa lo sarà, basterà l’opinione.
E’ questo, se mi guardo intorno, che mi preoccupa di più.
La reazione alla difficoltà di comprensione della realtà sta creando una specie di realtà parallela, personale, individuale, assoluta e chiusa, in cui ognuno diventa Verbo, impermeabile all’errore o al confronto, setta di se stesso, alla ricerca di qualcuno che ti indirizzi o che replichi nel mondo la tua stessa tavola delle leggi, che sia logica o folle.
Sta succedendo da anni, lo abbiamo voluto e perseguito, scivoliamo verso l’imbuto e lo facciamo cantando.
E a volte, in un acuto di gioia, lo chiamiamo anche progresso.