Ho letto le linee guida (https://it.scribd.com/document/461617157/Emergenza-Covid-19-Fase-2-Testo-Finale-Condiviso#download) delle regioni su quanto accadrà da lunedì e l’attenzione mi è caduta subito sulla distanza prevista.
Un metro.
Per bar e ristoranti la distanza minima fra le persone (nemmeno fra i tavoli) è quella. Persone che ovviamente non avranno la mascherina.
Non è obbligatoria la misurazione della temperatura da nessuna parte.
Negli uffici, se la distanza fra le postazioni è quella indicata, non c’è bisogno di protezioni.
Le regioni sono contente, il governo le ha accontentate.
A questa decisione, però, va aggiunta la realtà dei fatti.
Non c’è un meccanismo di tracciamento dei contagi, non si risale la catena, si fanno pochi tamponi.
Non c’è un meccanismo elettronico di controllo dei contatti e nemmeno una procedura per capire come legare il tracciamento online con delle specifiche azioni offline.
Non sappiamo quanta gente asintomatica ritornerà al lavoro o girerà per strada a partire da lunedì.
Non sappiamo quanta gente ha contratto il virus ed è ancora positiva, malgrado non abbia da tempo i sintomi.
Non abbiamo un test sierologico per capire chi ha avuto la malattia e possiede gli anticorpi.
La maggior parte della gente usa malissimo i dispositivi di protezione e col tempo lo farà anche peggio.
Non abbiamo predisposto nessun meccanismo reale di adeguamento del trasporto pubblico, in alcune zone congestionato oltre ogni ragionevole dubbio in situazioni normali.
In queste condizioni il lockdown (fondamentale, essenziale) ha avuto il solo scopo (vitale) di decongestionare gli ospedali prossimi al collasso, come se svuotare le terapie intensive volesse automaticamente dire che il virus se n’era andato.
Ma non è così.
Nel contempo è cominciata da parte di una larga parte dell’opinione pubblica una corsa alla riapertura, al ritorno alla normalità, con motivazioni anche comprensibili, ma che partono da un punto di vista sbagliato, sostenuto anche a gran voce da classe dirigente e media.
Che sia possibile un ritorno a come eravamo prima.
Invece la normalità non c’è più.
La vita che si faceva, con quelle modalità, i riti, le necessità inderogabili, non è compatibile con una malattia infettiva come questa.
Se vogliamo la normalità, quella di prima, totale, assoluta, il rischio concreto è di tornare in quarantena, chiusi in casa.
La nuova normalità è tutta da costruire e va costruita e andava costruita prima di aprire le gabbie.
A quanto pare, fino a questo punto, si può dire che non ci ha pensato nessuno.
Ci si è giustamente preoccupati di sostenere meglio che si poteva la situazione economica, ma con scarsa attenzione a cosa sarebbe accaduto quando saremmo tornati per strada.
Attenzione così scarsa che sulla distanza interpersonale si è giocata la vera battaglia delle ultime ore, quasi che scrivere su un documento che si può stare a un metro di distanza senza mascherina al ristorante possa rendere reale una fantasia da burocrate o politicante.
Mi spiace per la conferenza delle regioni, ma se scrive nero su bianco che i gatti parlano italiano, il micio di casa continuerà lo stesso a chiedere udienza miagolando.
Basta leggere l’analisi di alcuni casi di studio fatta molto bene in questo pezzo di Internazionale (https://www.internazionale.it/notizie/erin-bromage/2020/05/15/rischi-contagio-conoscerli-evitarli) per capire come funziona la faccenda.
Purtroppo, in queste condizioni, la fase 2 – o 3 o quello che ci pare – diventa la fase si salvi chi può.
Le regole stabilite, secondo gli studi fatti e le basi che l’immunologia e il buon senso rendono evidenti, non servono se non in minima parte a mettere in sicurezza la nostra vita e quella dei nostri cari.
Non garantiscono che non ci ammaleremo, non garantiscono che potremo prendere un mezzo pubblico con un adeguato margine di sicurezza o prendere un caffè, mangiare una pizza, fermarci a un autogrill.
Garantiscono solo la ripartenza delle attività economica.
È il solito vecchio mantra darwiniano che funziona bene per la biologia, ma che applicato alle relazioni socio economiche diventa soltanto una nuova forma di carneficina.
In epoca neoliberista si consuma e si produce. È il denaro, bellezza.
Com’era? Ne usciremo migliori?
Molti commercianti, a mio avviso con una certa spregiudicatezza verbale, dicono che le misure necessarie non sono realizzabili. Pensate se lo avessero detto anche in ospedale. “Ci dispiace, per curavi servirebbero letti, dispositivi, spazi, ma con le nostre condizioni non si può fare.” Vi sarebbe piaciuto?
Perché in tutta la questione ci si dimentica una cosa. Ogni cliente – di un bar, di un ristorante, di un centro commerciale, di un negozio qualsiasi – non è la carne da macello che serve a foraggiare l’attività commerciale, ma a sua volta un lavoratore che deve restare in salute, se vuole portare a casa lo stipendio.
Provate a vederla così.
Andreste in un locale in cui la vostra salute è delegata al fatto che il vostro vicino non vi starnutisca accanto? O tossisca accanto? O non sputacchi (purtroppo capita) chiedendovi come state? Perché sull’educazione del prossimo non si può contare, lo sapete, vero?
Prendete la fustella, guardatelo quel metro.
Ho la fortuna di non dover usare i mezzi pubblici. Non invidio chi dovrà farlo.
E ho deciso di darmi delle linee guida rigide, per i prossimi mesi.
Frequenterò solo i locali (bar, ristoranti, negozi) che si prenderanno rigorosamente cura della mia salute. Come prima pretendevo che fosse impossibile o largamente improbabile beccarmi un’intossicazione al ristorante, così farò oggi per il covid. E lo stesso pregherò di fare ai miei famigliari e alle persone che amo.
Scrivono oggi Ciriaco e Lo Papa su Repubblica: “pur di garantire la sopravvivenza delle attività che minacciavano di non riaprire, governo e Regioni accettano di affrontare il rischio di un incremento dei contagi.”
Facile no?
Garantisco che me ne ricorderò.
Mi ricorderò delle pressioni di Confindustria e di cosa è accaduto.
Mi ricorderò di chi ha venduto disinfettanti e dispositivi di protezione a prezzo di borsa nera. Di chi ha triplicato i prezzi dei generi alimentari. Di chi ha speculato sulla salute e poi si è guardato intorno e ha chiesto “chi, io?”
Mi ricorderò di una generazione lasciata a morire come cani. Spesso, in molti casi, uccisa per dolo, se non per colpa.
Mi ricorderò dei capricci e delle singole lamentele quotidiane, nella maggioranza dei casi ridicole sopra i dodici anni di età.
Mi ricorderò di chi è stato lasciato solo in casa, malato e poco assistito, mentre si sbandieravano assistenze rapide, veloci, efficaci, che esistevano solo sulla carta.
Mi ricorderò dei troppi Io, della spocchia e dell’inconsistenza.
Mi ricorderò di chi ha negato un prestito garantito, di quelli del “noi non aderiamo”, di chi ha preteso garanzie anche se non dovute.
Mi ricorderò di chi, oggi, pensa solo alla tenuta del sistema sanitario e del sistema economico, si preoccupa che si possa produrre e consumare e, nel caso ci si ammali, si possa essere curati.
Tutto perfetto, non fosse che non parliamo di un’influenza.
Non ne usciremo migliori.
Direi proprio di no.
A queste condizioni speriamo solo di uscirne sani.