Solomon è un musicista, suona il violino, vive a Saratoga Springs, vicino a New York, ha una moglie, un figlio ed è nero.
Nero nel 1841, in un’America molti anni prima della guerra di Secessione, in cui la schiavitù è legale.
Solomon è Chiwetel Ejiofor, un uomo libero, colto, intelligente a cui qualcuno offre un lavoro, il suo lavoro, da musicista, a Washington, per pochi giorni.
Accetta, guadagna, funziona. Fino a una sera, qualche bicchiere di vino di troppo, una sbronza da recuperare, un letto che diventerà il suo ultimo letto, per molto tempo.
Quando si sveglia è incatenato al pavimento di una cantina, incatenato alle mani, incatenato ai piedi.
Lì, Solomon non esiste più. E’ solo uno schiavo, una cosa, un oggetto, una macchina viva destinata ad essere venduta, usata, sfruttata, uccisa, se tenta di alzare troppo la testa. Lì, nella frusta che per la prima volta si abbatte sulla sua carne, comincia il viaggio del film, il viaggio di Solomon, il viaggio di ogni spettatore che segue la sua storia.
Come Hunger, come Shame, 12 anni schiavo è la storia di un uomo e se allora la schiavitù era carceraria, politica o psicologica, qui è fisica, è coercizione, dolore, violenza. Ed è corpo, come nei due precedenti. Il corpo di Solomon che si apre, si piega, si rialza, che corre, che guarda, che spalanca gli occhi all’alba, al tramonto, alla notte, agli anni che passano sempre uguali e sempre peggiori, alla speranza sempre tradita, alla solidarietà che si arresta (quasi) sempre un attimo prima, alla follia paradossale di cui è vittima, alla rabbia feroce e folle di cui è spettatore e destinatario.
Questa volta è la vita che diventa carcere, non più un luogo, non più un’ossessione, è una gabbia in cui sei costretto a sopravvivere, nella speranza di poter ricominciare a vivere di nuovo.
Un film monumentale proprio perché più tradizionale dei precedenti, difficile da vedere, durissimo da sopportare, in cui la violenza fisica che esplode improvvisa o prevedibile è più sostenibile di quella psicologica. Così ti restano incollate le cicatrici di Solomon e di Patsey, la caparbietà con cui resiste, l’odio freddo e feroce di ogni espressione e di ogni frase di Michael Fassbender e i colori di un mondo splendido, tutto intorno, il viola del succo dei frutti di bosco, il bianco del cotone, il verde delle piante e degli alberi, il rosso, l’arancione, il giallo di tramonti sempre simili a scandire un tempo lento, crudele, eterno, inesorabile.
Non c’è pietismo, non c’è retorica, non c’è indulgenza.
E’ solo cinema, quello in cui uno sguardo può cambiare tutto, un gesto rappresentare una vita.
Quello in cui la bellezza straordinaria di un’immagine riesce ad accompagnare fino in fondo la follia, la tragedia, l’orrore, la speranza.