Quando ho sentito parlare per la prima volta di Joker la notizia diceva che alla regia sarebbe dovuto andare Scorsese.
Orecchie dritte in un microsecondo.
Il re dei criminali e dei folli, l’uomo che ride, in mano a un regista che quel mondo di violenza, disperazione e follia lo racconta da sempre con una capacità straordinaria.
Quella notizia sulla regia è poi diventata produzione e poi, a film fatto, nulla.
Perché comincio da Scorsese?
Perché mi pare che non si possa lasciar perdere il regista italoamericano se si scrive qualcosa sul Joker di Todd Philips.
Lo dico subito, mi è piaciuto.
Con l’aria che tira in certo cinema americano, fossero tutti così.
E parlo anche dei film tratti dai fumetti.
Lo dico avendo adorato il Batman di Nolan, i primi due Spiderman di Raimi, la mezz’ora iniziale di Man of Steel, con l’umanità dell’alieno Superman alla ricerca della sua identità, e non riconoscendo nei baracconi iper tecnologici di battute un po’ sciocche e effetti speciali, le storie che mi hanno aiutato a diventare adulto e che ancora leggo.
Joker, come idea, sta dalla parte di Nolan e oltre.
È la storia struggente, tragica (forse troppo) di una vita danneggiata dagli esseri umani, dalla realtà e dalla follia. Ho letto da qualche parte che non ricorda il personaggio dei fumetti. Beh, non so che fumetti avete letto, ma l’uomo che risorge sul cofano di una macchina o che spara a un cadavere ormai morto è il Joker che ricordo io, il Paziente Zero dell’Arkham Asylum.
Joaquin Phoenix è il film. La storia, la qualità e la fortuna del film.
Non solo perché è in scena in ogni singola inquadratura, ma perché senza la sua fisicità, la risata che sembra – e forse lo è – un pianto disperato, il trucco che cola col pianto, l’aria disfatta che diventa la levità del ballo, la follia che scivola nelle pieghe della disperazione e la rivalsa cruda dell’omicidio brutale, amorale, feroce perché facile e quasi dovuto, questo film non esisterebbe. Come non esisterebbe se si fosse trattato solo della storia di Arthur Fleck.
Poi, però, c’è il film.
E si torna a Scorsese.
Perché la Gotham di Phillips assomiglia terribilmente alla New York anni settanta violenta e disperata di Scorsese, perché Re per una notte è almeno in parte un riferimento evidente e perché il legame con Taxi Driver è gigantesco, sbilanciato, eccessivo, a volte al limite del remake.
E poi, ovvio, c’è De Niro.
Da spettatore, quel senso di disturbo, angoscia, violenza – gratuita, dovuta, riparatrice, liberatoria che galleggia per tutto il film, anche quando non esplode – mi è parsa in secondo piano rispetto alla sensazione di guardare una storia già vista e già raccontata da altri e decisamente oltre l’omaggio, con un buco e mezzo di sceneggiatura enorme e salvata alla grandissima dalla performance straordinaria del suo protagonista.
Un bel film, con un finale furbo e ipnotico – forse l’unica idea originale e interessante – che risolve in modo divertente il fantasma inevitabile di Batman, da vedere, su cui ragionare e discutere – già questo è un merito. E perfetto per un’epoca smemorata come questa.