L’Emilia attende la piena del Po. A Genova, nel frattempo, l’acqua si prende la città e la vita di qualcuno. Una settimana prima era toccato alla Lunigiana e alle Cinque Terre. Il ponte sullo stretto di Messina non si fa, anzi sì, quasi no. Qualcuno ha già ricevuto la lettera di esproprio delle case, dove dovrà sorgere il cantiere, ma il Parlamento ha votato il blocco dei fondi. In provincia di Alessandria è finito sott’acqua il piano parcheggio di un centro commerciale, tirato su nella zona golenale del Bormida. Sul greto del Vara, una delle zone appena alluvionate, era prevista la costruzione di un outlet. Niente di abusivo, per carità, tutto in regola e permesso. Non abbiamo più un euro per la difesa e la messa in sicurezza del territorio, il clima scatena in poche ore la pioggia di mesi e infierisce. Non ci preoccupiamo da secoli di cosa accade se decidiamo di costruire su quello che un tempo era il letto di un fiume. Ci stupiamo se, tempo dopo, quello stesso fiume decide di riprendere il suo corso naturale. Una delle meravigliose guerre in cui questo Paese talebano ha sprecato anni, intelligenze e stupidità, è fra chi vorrebbe aprire cantieri ovunque e chi è disposto a incatenarsi per evitare il taglio di un albero. Nel frattempo si progettano opere pubbliche ciclopiche e irrealizzabili, si aprono cantieri senza preoccuparsi (o preoccupandosi a posteriori) del luogo in cui si scava e si decide troppo spesso che chiunque ha costruito dove gli pareva ha diritto a poter sanare. Quando poi ci scappa il morto, parliamo di tragica fatalità. E se invece, come accade quasi sempre, fosse colpa nostra?
Uscito sul Corriere della Sera di Bologna, martedì 8 novembre
