Questo pezzo è stato scritto per la rivista Il Mulino
Trentadue anni.
Quante cosa può fare un essere umano in trentadue anni? In trentadue anni la vita cambia almeno due volte. Trentadue anni sono l’età del nipote di un conoscente che ricordiamo in fasce, del nuovo vicino di casa. Sono l’età di un figlio. Lo abbiamo visto mentre tentava di camminare, lo abbiamo visto correre, lo abbiamo sentito ridere, piangere, urlare. Abbiamo scoperto che si faceva la barba, abbiamo cominciato a considerarlo un uomo. Il tempo che ha impiegato, la somma degli infiniti istanti di tutta la sua vita, è la cifra che ci separa dalla strage di Bologna.
Il 2 agosto arriva, ogni anno, a battere i rintocchi di una campana che suona sempre più flebile.
Qualche mese fa, quando il processo di appello per la strage di piazza della Loggia ha assolto i suoi imputati, si è detto che era arrivato il momento di consegnare quella vicenda alla storia, più che alla giustizia.
Un compromesso, certo. Ma che potrebbe almeno salvare la sostanza di quanto è accaduto. A patto che il giudizio della storia, la conoscenza dei fatti, dell’ambiente, dei protagonisti, diventi patrimonio comune.
L’Italia è un Paese malato di Alzheimer, in cui la memoria è diventata un paradigma insopportabile.
Per consegnare le stragi – anche quella di Bologna, che ha una verità sentenziata – al giudizio della storia, occorre che ne esista una memoria condivisa. Per lo stragismo italiano, per gli anni del terrorismo rosso e nero, semplicemente non c’è. Così sono possibili deserti di conoscenza, praterie smisurate che consentono alle generazioni più giovani di attribuire la bomba del 2 agosto alla mafia, alle brigate rosse. O di non attribuirla affatto.
E in questi vuoti pneumatici si incastrano alla perfezione le versioni alternative, i depistaggi, i tentativi di strumentalizzazione annuali e le dichiarazioni, al limite fra l’incivile e il ridicolo, che ascoltiamo ogni anno.
Per questo, credo, occorre ragionare seriamente di quello che è accaduto, dei motivi che lo hanno scatenato e di come tramandare il dolore, il dramma, la verità – quella storica, sì – di quanto è avvenuto. Tramandare, mandare oltre, trasmettere a chi viene dopo. A chi non era neppure bambino, quel 2 agosto del 1980. A chi non ha una vittima o un parente in famiglia, a chi non può ricordare per motivi contingenti, a chi ha avuto in sorte il destino di salvarsi dalla ferita individuale, ma non da quella collettiva. Quella c’è, esiste, rimane. Incastrata come una scheggia nel tessuto sociale della nostra realtà.
La memoria appartiene agli uomini, i fatti alla storia. Ma è impossibile esercitare la prima, senza la conoscenza di quanto è accaduto.
Raccontiamolo.
Il terrorismo e lo stragismo sono una parte fondante della nostra storia e del nostro presente. È stato, prendiamone atto.
Raccontiamolo. Andiamo oltre. Voltiamo pagina. E non nel senso di cominciamo a dimenticare, anzi. Ricordiamo davvero. Troviamo un modo perché non si arrivi al momento in cui tutti questi anni saranno passati invano. Smettiamo di trattare la memoria sullo stragismo come una polemica di parte, smettiamo di applicare la par condicio ai fatti, perché la realtà è molto più complessa e molto più semplice di così.
Serve solo volontà, onestà intellettuale. E qualcuno che cominci.
Si dirà che ci sono molte ombre, molte mancanze, tante assoluzioni.
È vero, non in assoluto, ma è vero. E ci saranno per sempre.
Ma il contesto storico, il giudizio della storia da cui siamo partiti, è chiaro, lampante, inequivocabile.
È una questione che riguarda per prime le Istituzioni, lo Stato, il Comune. È accettabile che nel 2012 le giovani generazioni non conoscano cos’è accaduto? È accettabile che non lo sappiano neppure i quarantenni di oggi? È accettabile che non siano in grado di interpretare la realtà, perché non conoscono il tragitto che ci ha portati fin qui? Non dovrebbe essere un atto dovuto, tramandare?
Troviamo un luogo per raccontarlo, un luogo su cui si debba per forza sbattere la faccia e che vada oltre i riti, doverosi e sacrosanti. Troviamo un tempo per raccontarlo, nei programmi scolastici, in televisione, inventiamone uno apposta. Che si veda, che si senta.
C’è qualcosa di più evocativo di una storia?
C’è qualcosa di più importante di quello che siamo?
Siamo disposti ad arrenderci così?
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