The earth is blue and there’s nothing I can do.
Da Space Oddity sono passati più di 40 anni, ma David Bowie è sempre David Bowie.
La fila per entrare alla mostra che lo celebra, nella città che gli ha aggiunto nuova vita musicale, dura circa un’ora.
Dentro, a parte i costumi di scena (Ziggy Stardust, Major Tom, the White duke e tutto il resto), un allestimento notevolissimo che ti accompagna per tutta la sua carriera musicale, dagli inizi fino a oggi.
Un viaggio fantastico, se ti piace l’uomo, l’artista e il lavoro a tutto fondo che compone la sua carriera.
Così ti capita di sorridere davanti ai calzari di Ponzio Pilato, al bastone di Labyrinth, agli abiti di Thomas Jerome Newton un secondo dopo aver ascoltato e visto, su uno schermo grande come una stanza, il buon Bowie chiedersi se davvero c’è vita su Marte.
Roba da fan, certo.
Anche roba da Bowie, però.
 
Il memoriale dell’Olocausto è qualcosa a metà fra una macchia e un ricordo costante che non smette di toccarti la spalla per ricordarti che esiste.
Riempie uno spazio – mi viene da dire un buco – a due passi dalla porta di Brandeburgo con una foresta di stele grigie di altezze diverse, disposte a distanza regolare su un terreno ondulato.
L’effetto è impossibile da ignorare, allo stesso tempo ti respinge e ti attrae.
Trovi turisti e berlinesi seduti sulle stele più piccole, ai margini del perimetro.
E altri che percorrono le strade in penombra o si fermano ai margini, come se affrontare quello strano dedalo facesse paura.
Sotto il memoriale un’esposizione breve e precisa racconta le tappe dell’Olocausto, attraverso la vita di alcune famiglie sparse per l’Europa invasa dalla Germania.
Guardi le foto di gruppo, le loro facce tranquille, serene, sorridenti e leggi accanto che cosa ne è stato e ti rendi conto per l’ennesima volta che solo i pessimisti sono usciti indenni.
Quelli che alle prime avvisaglie di quanto sarebbe accaduto hanno preferito mettere fra loro e la svastica migliaia di chilometri, fuggendo in Palestina, in Russia o al di là di un oceano, negli Stati Uniti.
Gli altri, se sono vivi, lo devono al caso o alla fortuna o Dio, se sono ancora in grado di pregarlo.
In fondo al percorso, in una stanza buia, lastre di luce sul pavimento consentono di leggere le ultime di lettere alcuni deportati nei campi.
Sto per morire, dice uno. E non saprò mai perché.