Da alcuni anni affronto i grandi musei con uno spirito nuovo.
In sintesi non penso più di avere un’unica occasione, ma so che tornerò e mi consento il lusso di guardare con attenzione quello che mi interessa in quel momento, studiando un percorso e tralasciando quello che vedrò nella prossima visita.
Mi piace pensare – essere certo? – che tornerò.
Così il primo passo dell’isola dei Musei è il Neue, di fatto per il poco che si trova degli scavi di Schliemann a Troia e la la collezione egizia, in particolare la signora Nefertiti.
E proprio la dama in questione merita tutta l’ammirazione che il mondo e il museo che la accoglie le dedicano.
Il motivo è banale, è di una bellezza abbagliante.
Lo è l’oggetto, il busto, la perfezione del disegno, del colore, l’impressione te conservazione con tutti quei secoli sulle spalle.
E lo è, ancora di più, la donna ritratta nel busto.
Una bellezza di oggi e di sempre, di quelle che attraversano i secoli e il ricordo.
Dopo di lei, perdersi nelle strade che portano al museo ebraico ha il sapore della realtà che richiama con fermezza all’appello.
Senza seguire un percorso preciso, passi dalla parte est a quella ovest, esci dalle strade segnate per i turisti, immagini o ti illudi che alcuni dei palazzi che vedi, lunghi parallelepipedi anonimi, a raccogliere parcheggi o piccoli giardini, portino ancora le tracce del socialismo reale che ti sembra di scorgere e che ricordo così bene in una parte della periferia di Cracovia.
Poi, c’è il museo.
L’idea è di Daniel Libeskind, l’autore del progetto che sta sorgendo a New York sul deserto di Ground Zero.
L’edificio è grigio e riluce, dall’alto dicono che possa sembrare un fulmine o una mezza stella di David.
Dentro, però, è un dedalo di sale in cui è facile perdersi e che si articolano su tre percorsi.
La via della continuità, una scalinata su cui si aprono le sale dell’esposizione vera e propria, un percorso anche interattivo su tutta la storia dell’ebraismo.
Due sale ti restano addosso. In una, un robot scrive i rotoli del Talmud a velocità umana, lungo una tavola gigantesca imbiancata di luce.
In un’altra attraversi un giardino di cemento camminando su centinaia di maschere di metallo, a rappresentare gli scomparsi e il rumore assordante della loro assenza.
La via dell’esilio, la seconda che ho percorso, è un lungo corridoio che sfocia sul giardino dell’esilio, un cortile che pare in salita da qualsiasi parte lo si percorra, in cui la fatica del passaggio pare prevalere su tutto il resto e i cui alberi sono steli di pietra ravvicinati che mostrano e nascondono la struttura grigia dell’edificio principale.
E poi il cammino dell’Olocausto.
Un corridoio bianco, luminoso, in pendenza, sui cui muri si stagliano, simili ad oblò, le poche teche che raccontano in breve sintesi il destino di una famiglia mandata alla sterminio nei territori tedeschi.
In fondo, dietro una pesante porta di metallo che sbatte quando si chiude, il ritorno ai primordi della torre dell’Olocausto.
Di fatto una stanza rettangolare, larga tre metri e lunga una decina, che fa da base, appunto a una torre altissima, forse triangolare che prende luce da una sola apertura, posta quasi in cima, con l’effetto di precipitare chiunque ci entri nel buio quasi totale, trasformandoti in poco più di un’ombra, accolta nel silenzio.
Un silenzio che gela, isola, cancella, senza concedere spazio per nient’altro.