La bottiglia è vuota e trasparente.
E’ stata una birra, forse. Ora è vuota. Vetro pallido che scuote morbido l’aria. Ruota su se stessa, una volte, due, tre. Atterra sul marciapiede. Esplode.
La ruota del mezzo della Polizia deve essere vicina, ma non la vediamo. Vediamo i vetri, minuscoli frammenti di realtà che si disperdono. Ognuno di loro riflette una piccola frazione di mondo, non abbastanza per comporre un quadro.
Tutto questo per una bottiglia? si chiederà la poliziotta.
Quella bottiglia la vediamo spesso, durante il film. Decolla dalla mano di un tizio con i capelli corti. Un gesto che gli viene quasi per caso, sembra più noia che rabbia, più divertimento, che ribellione. Quella bottiglia, taglia il film in minuscoli frammenti, attraversa le storie in tutte le lingue che compongono il quadro. Le taglia, così come avrebbe potuto fare una delle schegge in cui si trasforma. Le attraversa, in qualche modo le giustifica.
Le unisce.
Quella bottiglia conclude la sua corsa sull’asfalto di fronte alla Diaz.
Ed è, in qualche modo, il pretesto con cui viene avviata la peggiore sospensione dei diritti civili avvenuta in una democrazia nel dopoguerra.
Diaz è cinema. Cinema vero.
Diaz è sangue e violenza.
Violenza cieca, barbara, inutile, folle, che colpisce ancora di più per l’accanimento sui corpi femminili e per i gesti, ripetuti mille volte e tutti uguali, con cui scarponi, tonfa, ginocchia diverse colpiscono corpi inermi, insanguinati a terra. Come l’ultima necessaria firma del disprezzo.
Diaz non è un film che indigna, non esci furibondo, non cerchi giustizia o verità.
Esci senza fiato. Stanco nel corpo e non nei pensieri. Attonito.
E pieno di sguardi.
La ragazza tedesca a terra, gli occhi rovesciati.
La sua compagna con il visto pestato, i denti spezzati, le mani spinte in avanti, anche a terra, come fossero zampe.
Gli occhi tristi del pensionato, tristi anche per chi lo ha colpito.
Lo sguardo furibondo e disperato del tedesco che denuncia quello che ha visto.
Gli occhi furbi, arrabbiati e calcolatori dei black bloc che si danno alla fuga e dei due ragazzi francesi che guardano il sangue sui muri.
Gli occhi fragili di Elio Germano in un letto d’ospedale.
Quelli increduli di Claudio Santamaria che ferma la sua squadra, li costringe a uscire dalla scuola.
Lo sguardo distante di Mattia Sbragia. Armando Carnera. O Arnaldo la Barbera.
Lo Stato fin troppo assente, fin troppo presente.
Quando finisce, c’è silenzio. Quello stesso che hai sentito frantumato da grida lontane e vicine, per molta parte della proiezione.
Un silenzio che non ti consola.
Un silenzio che non ti basta.