Ci sono storie che si portano a spasso una strana magia.
La tocchi fin dall’inizio, a volte addirittura dal trailer. E te la porti addosso dal primo fotogramma fino ai titoli di coda. E oltre, in parcheggio, al ristorante, a casa.
Storie che in sé non hanno nulla di incredibile o originale. Nulla che ti stupisca o che tu non abbia già visto. Nulla che tu non sappia già.
Eppure riescono a infilarsi con precisione nello spazio sottile fra una storia riuscita e una storia qualunque. E a tirarti dentro.
A fare in modo che tu possa crederci.
In fondo, anche con un film o un romanzo, è spesso una questione di fede.
E a Hugo Cabret credi.
Ci credi che si possa vivere in un orologio, che una stazione diventi un mondo, un automa un messaggio lontano. Ci credi che il destino sappia con precisione cosa fa. Che la vita non sia mai un orologio rotto. Che il caso sia in grado di legare esistenze lontane e ignare, per condurre in porto l’unica felicità possibile.
Ci credi come hai creduto al monello di Chaplin, al mostro della laguna, alla voce ovattata e crudele di Hal9000, al sommergibile di Nemo in fuga da una piovra, alla beneficenza forzata di Robin Hood. A un razzo che si pianta nella faccia dolorante e infastidita della luna.
A qualsiasi storia con cui un narratore capace ti ha inchiodato al buio, in una sala, a guardare la tecnica trasformare la luce in magia.
Un’unica cosa, personale. Odio il 3D. Lo trovo inutile.
Questo è un film di immagini meravigliose che perdono corpo, insieme, colore, viste dietro gli occhialini.
Per un fiocco di neve che ti vola accanto, non vale la pena perdere nemmeno la più piccola sfumatura del sogno folle e impossibile di Hugo Cabret.