“Forse è l’atmosfera nella sala. Ma improvvisamente riesco a vedere gli elefanti dentro tutti loro.
Sono animali belli. Ma difficili. Richiedono sicuramente molta cura. Per non parlare della quantità di cibo.
Sono felice di conoscerli. E sono grato di essere solo un ragazzo di quattordici anni che non ha un elefante, ma solo le sue gambe da calciatore, la sua modestia innata e ben sviluppata. E un piccolo fox terrier”
Potete non crederci.
Potete pensare che non esista l’isola di Finø, che infatti non esiste. Potete non vedere che il protagonista si chiama Peter come il suo autore e che racconta una storia il cui succo di tutto è anche la solitudine, bizzarra coincidenza per un uomo che nessuno vede dal 1996.
Potete non credere che la storia sia un panino imbottito, una matrioska infinita che parte da una favola e finisce per raccontare il senso di un’esistenza.
Potete ignorare l’incipit, “ho trovato una porta per uscire dalla prigione: una porta che si apre verso la libertà” e non chiedervi nemmeno per un istante se tutto quello che cerca di dire è che quando scrivi hai bisogno solo di quella porta e di una storia da raccontare.
Potete non essere cattivi come me e non chiedervi se un editore italiano avrebbe pubblicato questo libro o se non sia stato il nome dell’autore, quello di Smilla, a costringerlo a non inserirle la storia nell’abominio che oggi chiamano young adult.
Potete non sorridere nemmeno un istante per tutte le trecento e passa pagine del libro (a tratti mi è capitato di ridere) o pensare che l’autore si diverta un mondo a prenderci tutti per i fondelli.
E potete non sentire qualcosa che si spezza, oltre le pagine e i vostri occhi che leggono, nel momento esatto in cui il protagonista abbraccia la Solitudine.
Potete non credere a Anaflabia, Tilte, Hans bellocomeunprincipe, a Ashanti, a Pallas Athena, escort in maschera intollerante agli uomini e al traffico. Potete non credere a una parola di quello che racconta ed è così, non ci si può credere, è impossibile, non si riesce. Eppure accade.
Accade perché al di là di tutto, del gioco, della metafora, della solitudine, della storia, della galleria di personaggi, delle manette, dei miracoli veri, presunti, imprevisti o creati ad arte, Peter Hoeg sa scrivere. Scrive da Dio, non ci piove. E su quella scrittura, sui motivi, il suo protagonista omonimo sarebbe capace di trovare almeno venti metafore calcistiche.
Io, invece, mi fermo qui.
Se lo leggete, potreste odiarlo, vi avverto.
O potreste perdervi da qualche parte e aspettare che finisca non volendo che accada.
Succede, purtroppo di rado. Succede con gli scrittori, quelli veri.
E Peter Hoeg cazzo se è uno scrittore.