Di seguito il testo del mio intervento agli Stati generali del genere che si sono tenuti a Bologna il 4 ottobre e che ho organizzato insieme a Massimo Carlotto.

Potrei fare un intervento di una frase.
La penso come Oscar Wilde, esistono solo libri scritti bene e libri scritti male.
Ma la faccenda è più complicata di così.
Anzi, è anche più complicata di così.

Pensando al mio intervento mi sono chiesto che cosa sia il genere e cosa sia il genere per me. E ho scoperto che si può essere confusi e certi allo stesso tempo.
E che è proprio questo il punto.

Ho pensato che non mi sono mai sentito a mio agio nella mia epoca.
Magari è un processo di crescita che ha funzionato male o presunzione o arroganza – ultimamente incontro arroganti che mi dicono che sono arrogante.
Ma anche questo è il punto.

Ho pensato che tutte le storie che continuano a stare con me, in quello che sono, in quello che penso, in quello che faccio, che hanno formato quella sicurezza e quella insicurezza, suggerito parole, aperto squarci, attaccato luoghi non sanabili e che sanguineranno per sempre, suggerito domande che girano più di un esercito di instancabili criceti, sono storie che mi hanno fatto male.
A volte con un cazzotto in pancia mentre sei distratto, a volte con la precisione silenziosa di un rasoio.
E anche questo è il punto.

Ho pensato che gli scrittori che hanno raccontato meglio la figura di Cristo erano tutti atei.
Pasolini, Saramago, Kazantzakis.
E anche questo è il punto.

Ho pensato – me lo avete sentito dire all’infinito, come il tentativo di togliersi di dosso una macchia ostinata – che del genere delle mie storie e delle storie in generale, non me ne frega nulla.
E ho pensato, alla fine, che invece me ne frega eccome.
E anche questo è il punto.

Perdonatemi se parlo di noir.
Per anni ci siamo detti che aveva incarnato un ruolo di romanzo sociale, di romanzo politico, che aveva la capacità di indagare i lati oscuri della nostra società, di accendere barlumi di verità dove nessuno la vedeva, di fare collegamenti dove non si potevano fare, di dire quello che non si poteva dire.
Ci siamo tutti riempiti la bocca con il mantra laico più bello e celebre del Novecento – io so, io so, ma non ho le prove e non ho nemmeno indizi, so perché sono un intellettuale, so perché sono uno scrittore, uno che ristabilisce la logica dove sembrare regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero – e cazzo, se era vero, era così e lo abbiamo ripetuto così tante volte, eravamo così tanto convinti che non ci siamo accorti che uno come Pasolini, omosessuale dichiarato, esplicito, dissacrante, che sapeva parlare di Cristo e di merda, di spirito e di sangue, oggi non lo farebbero mai scrivere sul più grande quotidiano nazionale o lo tratterebbero come un fenomeno da baraccone.
Ogni epoca si caratterizza per coloro che individua come i suoi intellettuali di riferimento.
E anche questo è il punto.

Ho pensato a una cosa che ci siamo detti mesi fa, a proposito della verità, del bisogno disperato di verità da parte dei lettori – voi, noi, sentitevi chiamati in causa da ogni mia parola, sentiamoci, io per primo – e ho capito che non è solo verità.
È un’altra cosa.
È la semplicità.
Un bicchiere di vino con un panino, la semplicità.
E questo è il punto.

Il pezzo conclusivo di uno degli album che ha composto l’epica della musica si chiama Eclipse e sfuma nel silenzio su cui affiora il battito di un cuore e in quel silenzio c’è una voce che non appartiene a nessuno dei Pink Floyd, è del portiere degli studi di Abbey Road, e quella voce dice “In realtà non c’è nessun lato oscuro della luna. Di fatto è tutta oscura.”
Questo è il punto.

Viviamo in un mondo violento.
E che sempre più spesso non ha bisogno della violenza fisica.
Un mondo implacabile e settario.
Un mondo che ti impone regole senza dirti che cosa significano.
Un mondo in cui non esiste altro Dio che la frase “non esiste alternativa”.
Un mondo in cui la regola è la libertà. La libertà di fare quello che ti pare, di chiamarla libertà e imporla agli altri.
Il mondo della neolingua, perché alcuni libri hanno sempre ragione.
Il mondo delle multinazionali e non dei governi, perché alcuni libri hanno sempre ragione.
“La sacralità del consumo come rito e della merce come feticcio” diceva sempre Pasolini.

Che c’entra con i libri e col genere? C’entra.
E infatti oggi tutto è genere e l’unica cosa che è rimasta del genere è un’etichetta utile ad appiccicare un colore su un libro, a sapere dove scaffalarlo, a consentire a un lettore sempre più cliente e sempre meno lettore, di portarsi a casa qualcosa che durerà giusto il tempo di leggerlo e che gli consenta di sedersi comodo sulla sua poltrona e in mezzo alle parole.

Rassicurazione. Volete essere rassicurati.
La verità non la cercate nel noir, non la cercate nella fantascienza, non la cercate nel fantasy, non la cercate nel romance che vi piace così tanto. La verità la cercate nel memoir, nella carne dello scrittore con la S maiuscola, l’unico a cui date etichetta di letteratura, a patto che sappia gocciolare dolore sulle pagine che sfogliate.
Da tutto il resto volete una carezza sulla testa, fai bei sogni, dormi bene, andrà tutto bene, la vita è meravigliosa, i cattivi perdono sempre, c’è sempre un commissario di condominio che ha un’intuizione geniale e trova il colpevole, c’è sempre un colpevole che in fondo non è così cattivo o è così cattivo da essere irreale, c’è sempre una Cabbot Cove dove un’arzilla scrittrice ingabbia i manigoldi o un mondo fatato dove ci si innamora fra vampiri e umani.

Ma il genere non è questa cosa qui.
Ci sono due frasi di Rustin Cohle, il personaggio di Matthew McConaughey in True Detective, che mi sembrano significative.
Le persone qui attorno è come se neanche sapessero che esiste un mondo là fuori, potrebbero vivere anche sulla cazzo di luna.
E ancora.
Tutti sanno di avere qualcosa che non va. Semplicemente, non sanno cosa sia. Vogliono tutti una confessione. Vogliono tutti un racconto catartico per descriverla, specialmente i colpevoli. Ma siamo tutti colpevoli, in qualche modo.

Catarsi. Rassicurazione.
Il genere non è rassicurante. Non deve. Il genere è quasi sempre caos.
Buttare l’anello nel Monte Fato non è una passeggiata di salute e quando finisce non c’è davvero la certezza che non ricomincerà e c’è gente che ha perso amici e vite che non sono più le stesse e Frodo non torna nella Terra di mezzo.
O pensate che Tolkien non parlasse alla sua epoca?

Avere una visione del futuro significa avere una visione del presente.
Lo sapeva Asimov, lo sapeva Dick – leggete Ubik, se non lo avete fatto –, lo sapeva Bradbury.
L’ucronia non è un modo divertente per immaginare una dittatura fra la colazione e il pranzo.
Romeo e Giulietta vi sembra rassicurante? Cime tempestose?
L’ancella parla alla sua epoca e accidenti se ci aveva preso.

Perché dall’immaginazione siamo finiti a parlare di genere?
Perché avete cominciato a confondere verità e finzione.
Lo dico a voi che i libri li recensite, voi che confondendo critica e marketing consigliate un libro del decennio al mese, voi che decidete cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è letteratura e cosa non lo è.
Lo dico a voi che li pubblicate – e che siete, anche giustamente, così spaventati che avete smesso di rischiare su qualcosa, su qualsiasi cosa.

Lo dico a voi, voi che leggete, noi che leggiamo, noi che consumiamo libri, che non è la stessa cosa di leggere.
Voi che vivete, noi che viviamo, nella certezza di essere nella parte giusta del mondo.
Un sondaggio negli Stati Uniti di qualche anno fa certificava che almeno un terzo della popolazione si considerava parte della minuscola minoranza dei ricchi.
Ecco, siamo così.

Vogliamo la qualità, ma non lo leggiamo.
Vogliamo storie complesse, ma non le compriamo.
Vogliamo una lingua che risuoni, ma non la capiamo.
Vogliamo la verità, ma non oltre lo schema consolidato di una vita.
Vogliamo, invece, il nostro personaggio, quello che trattiamo come l’amico di famiglia che vive all’estero, da vedere una volta all’anno e sapere come è andata.
Vogliamo una storia semplice in cui qualcuno muore e chiamarla noir. La versione Disney di una favola e chiamarla fantasy.
L’Umbria di Don Matteo, non la Marsiglia di Montale.
La paciosa serenità di Jessica Fletcher, non la sporca semplificazione di Luther.

Qualcosa che ci consenta di avere certezze.
Di esercitare un’appartenenza. Un giudizio.
Io i noir non li leggo o se li leggo, solo anglosassoni. O nordici. Che cosa c’è più nordico di un noir, con le eroine che resuscitano dai morti?
Io il gotico non lo leggo e nemmeno la fantascienza, men che meno italiana. Dai, italiana fa ridere.
Io le distopie non le leggo, ma Il racconto dell’ancella, poverina, è una serie fantastica.
Io le donne non le leggo – e magari sono pure una donna.

Qualcosa che ci consenta di dividere il mondo fra sommersi e salvati e fingere clemenza, con la stessa malcelata superiorità con cui Amon Goeth guarda uno dei suoi prigionieri e con un gesto da imperatore romano declama “Io ti perdono”.
Hai scritto un libro di ricette? È noir perché il coniglio lo cucini da morto.
Hai scritto un noir, uno, due, dieci anni fa? A questo premio non ti vogliamo, restare nel retrobottega per cortesia e non disturbare troppo.
Tutta gente a cui un giorno dovrebbe andare in dickensiana visita notturna lo spirito del signor Popinga, a spiegare come funziona il mondo e che la letteratura non è una porta sigillata, è una finestra che va in frantumi.
Credete che Il nome della rosa avrebbe vinto lo Strega se non avesse avuto quel nome in copertina?

Il genere è letteratura ed è una regola e la devi conoscere, se la vuoi sfondare e la devi sfondare, Santi Numi.
Eco lo sapeva, eccome.

Il genere è un’appartenenza, non può essere una prigione.
Perché alla fine aveva sempre ragione Oscar Wilde, i libri belli sono belli e i brutti sono brutti e non è vero, aggiungo io, che leggere fa bene qualsiasi cosa leggi.

Per indagare il mondo serve un’ossessione.
Per guardare in faccia al mondo, le dita infilate nel buio e nella merda che siamo, ognuno di noi un po’, serve più coraggio che per raccontare la tua disgrazia.
Il male esiste.
Ognuno di noi, nelle giuste condizioni, sarebbe capace di fare di tutto.
E non esiste una nicchia, una cuccia per cani, una regola, una legge, un bunker, in cui possiate far diventare il mondo quello che non è.

Si può staccare il cervello, eccome. Io adoro Grey’s Anatomy.
Ma almeno ammettiamo che è quello che vogliamo.
Sono stufo di sentire il disegno di un bambino paragonato a Picasso.

Rassegnatevi, che lo vogliate o no, in un modo o nell’altro, sapete già che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse arriverà un giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste sveglierà i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.
Magari, se avete letto qualcosa che vi ha raschiato il respiro, la prossima volta ve ne accorgerete prima.