Diciotto milioni (18.000.000) di euro.
Tenete a mente questa somma. Un bel numero, tanti zeri. Se siete abbastanza vecchi e ve la cavate con le moltiplicazioni, potete cercare di tradurlo in lire, per quello che conta. Siamo oltre la trentina di miliardi.
Mille e ottocento (1.800).
Un altro numero, che fa meno impressione, se non si specifica che si tratta di morti. Una stima per difetto, dei morti.
Quell’altro numero, che promette benessere e futuro, è un risarcimento.
Se vogliamo essere cattivi è il prezzo che chi ha procurato la morte dei mille e ottocento, è disposto a pagare perché su una parte di quello che ha fatto si possa mettere una pietra sopra.
Diciotto milioni, mille e ottocento. Sono diecimila (10.000) euro a cadavere.
Non mi importa se sono tanti o pochi, non me ne frega nulla neppure di discutere del prezzo di una vita umana. Ci sono i tribunali per questo.
Quello che mi interessa è raccontare questa storia.
Quei mille e ottocento sono i morti causati dalla Eternit, dall’amianto che producevano.
Sono gli operai che lavoravano la materia, poi i famigliari che lavavano gli indumenti e respiravano la polvere. E i commercianti, i baristi, il barbiere, da cui chi lavorava alla Eternit andava a tagliarsi i capelli, mangiare un panino, bere un caffè. Sono gli abitanti di Casale Monferrato, la patria di quella strana fabbrica dove si costruiva un materiale così eterno da portarsi via la vita di chi lo lavorava, di chi lo usava, di chi senza saperlo c’è passato davanti tutti i giorni e se lo è ritrovato nei polmoni.
Ora c’è un processo. Un processo storico, che chiede conto ai proprietari della Eternit di quelle morti. Dei mancati controlli, delle sicurezze lasciate in un cassetto, della consapevolezza che si producesse morte insieme all’amianto, con gli stessi tassi di crescita.
In quel processo ci sono parti civili. Gente che vuole giustizia, che vorrebbe vedere accertata una responsabilità.
Il comune di Casale Monferrato ha deciso di accettare la proposta dei padroni della Eternit.
Quei diciotto milioni in cambio della rinuncia a costituirsi parte civile nel processo.
Restano i famigliari, il Comune se ne va. E sarebbe facile, banale, perfino divertente in modo crudele, sparare sul colore di quell’amministrazione e sui partiti che la governano, ma non voglio farlo.
E’ una questione di senso civico, non di politica. Di senso di comunità, non di partiti.
Di giustizia, non di finanziamenti da ricevere.
Di cultura, anche questo sono le decisioni di un consiglio comunale.
È indegno che a questo gioco si presti una pubblica amministrazione.
Posso giustificare un singolo, ognuno fa i conti con il proprio dolore, le proprie bollette e la vita non si ferma.
Un comune non ha giustificazioni. Un comune, già nel nome che lo identifica, possiede la sostanza del proprio mandato.
Cosa c’è di comune in una decisione come questa? La possibilità di usare quei soldi per bonificare o sostenere le famiglie? Di investire nella ricerca?
Non assomiglia, invece, alla scelta di chi conosce il pericolo e fa i conti sulla differenza fra chiudere bottega e risarcire?
Non afferma quel principio? Non certifica la possibilità di ritornare indietro da qualsiasi cosa, anche dalla morte? Non lo rende lecito?
Un comune non dovrebbe stare con i propri cittadini, quando hanno subito un torto?
E se per quel torto sono addirittura morti, non dovrebbe essere una ragione in più?
E’ ora di smetterla di far credere che con un assegno e un adeguato numero di zeri si possa comprare il silenzio di tutti, emendare le colpe, ripulire la verginità, cancellare il ricordo dei morti.
Il mesotelioma, il tumore incurabile che soffoca, strozza la vita degli esposti all’amianto, colpisce con decine di anni di ritardo.
Molti di quelli che moriranno nei prossimi anni – e accadrà, non è malaugurio – non si sono ancora ammalati.
Eppure il cancro destinato a cancellare i loro polmoni viene da quella stessa fabbrica, da quegli stessi anni, da quelle stesse responsabilità.
Non possiamo salvare la loro vita, come non possiamo resuscitare i morti.
Possiamo solo raccontare la loro storia.
Incazzarci.
Rispettarli.
Difenderli anche se non ci sono.
Non scambiare un diritto con un assegno.
Rischiare, per paradosso, di non avere nemmeno quell’assegno, se il tribunale deciderà così.
Stare dalla parte giusta.
Mettere insieme, appunto, qualcosa di comune.
Si chiama civiltà.
La prima regola con cui dovrebbe muoversi, oltre a ogni cittadino, chi è stato eletto per occuparsi dell’amministrazione pubblica.