la fragile costellazione della vitaSto per contraddire una mia convinzione.
Lo dico subito, perché sia chiaro che non la considero sbagliata, ma se avrete qualche dubbio su quello che sto per scrivere posso capirvi.
La convinzione, dunque.
Mi capita (molto) spesso di leggere recensioni del romanzo di una casa editrice scritte da un autore della stessa casa editrice, magari citando a paragone un terzo romanzo, sempre della stessa casa editrice. Si tratta, di solito, del romanzo di punta, appena uscito e di paginoni centrali e in bella vista di quotidiani o magazine e l’effetto che ottengono con me è una specie di istinto di sopravvivenza del lettore, che si manifesta con l’elevamento a potenza della diffidenza nei confronti del libro recensito.
In parte, come da premessa, sto per fare la stessa cosa e anche se non citerò un terzo romanzo, il libro di cui sto per parlare è pubblicato da Piemme, che pubblica anche me.
Il romanzo in questione, però, non è una novità, non ha riempito le classifiche, non vola di recensione in recensione sulle pagine culturali della stampa italiana.
La fragile costellazione della vita, scritto da Anthony Marra e tradotto da Laura Prandino, è solo un libro splendido, nascosto, invisibile, sul punto di essere dimenticato, fra i best seller del New York Times, ma del tutto sconosciuto alle nostre latitudini.
Parlare della storia è facile e difficile allo stesso tempo.
Si svolge in una Cecenia devastata dalla guerra, una guerra che entra nelle famiglie, nelle amicizie, scava fra vicini di casa, fra padri e figli, fra sorelle. Si svolge in cinque giorni e in dieci anni, mescola crudeltà e dolcezza con il ritmo e la passione che solo una scrittura pazzesca è in grado di dare e comincia con una fuga, un uomo nei boschi, insieme a una bambina, via dal villaggio in cui vivono entrambi e in cui lei, ha perso i genitori e la casa.
La fuga ha una meta precisa, l’Ospedale N.6, sventrato dalle bombe, dove sono attivi solo due reparti, perché la gente o scopa o muore e in cui comanda una donna chirurgo, una donna sola, tornata nella guerra dal suo rifugio di pace, Sonja, in grado di ricucire un torace col filo interdentale e di cui nessuno tranne l’uomo con la bambina, il medico più incompetente che si sia mai visto, il ritrattista che conserva la memoria di coloro che la guerra ha fatto sparire nel nulla, conosce il patronimico.
Questo è tutto quello che si può dire di una storia che gira intorno al tempo e a se stessa come una giostra di orrori, speranza, sorrisi, lacrime, vite spezzate e ricomposte alla meglio e che porta a spasso chi legge con un’abilità che ricorda il realismo magico o i primi romanzi di Salman Rushdie e si chiude con una decina di pagine di una bellezza lancinante.
Ecco, mi fermo qui, sono in conflitto di interessi e se fossi in voi la soglia della diffidenza sarebbe salita oltre il livello di guardia.
Perciò non vi chiedo di credermi, ma di fare un esperimento.
Andate in libreria, cercate il libro, leggete le prime cinque pagine e altre cinque pagine a caso.
Dovrebbe bastare per convincervi.