A volte capita di incontrare un gioiello.
Tara vive in una bolla. Ne abbiamo sentito parlare molto, in questi anni egoisti e solipsistici.
La parte virtuale del nostro mondo – perchè William Gibson e Philp Dick e tutti gli altri avevano ragione, esiste un mondo virtuale – è una bolla. Un universo chiuso, un sistema di riferimento non inerziale, parafrasando, in cui la realtà possiede regole diverse, un ecosistema che, spalmato sul resto dell’universo, potrebbe essere così minuscolo da diventare insignificante.
Nel mondo di Tara non c’è passato e nemmeno presente, ogni cosa è rimasta immobile, le azioni degli uomini sono quasi tutte così ininfluenti da non meritare di essere raccontate e il futuro è un abisso nero senza fondo, la fine dei giorni è in arrivo, sempre dietro l’angolo, imminente, ogni istante è sottoposto al volere di Dio, ogni gioia e ogni disgrazia, ogni incidente e ogni fortuna, una ferita, un giorno di sole, un incendio, una morte, tutto quanto è premio o punizione, consolazione o tradimento.
Tara nasce in questa bolla e i suoi genitori sono i custodi, seguaci (fedeli non è corretto) di un Dio che non è neppure quello del Vecchio Testamento, ma una divinità pagana, crudele, ignaro del perdono o della pietà. Un Dio che pretende obbedienza cieca.
In questa bolla esistono solo la paura, la fede, l’obbedienza, l’attesa della fine del mondo.
In questa bolla, la società come la conosciamo è un complotto per controllare la popolazione, è lo strumento del Diavolo, l’Abisso da combattere.
In questa bolla, la scuola pubblica non esiste, Tara e i suoi fratelli non ricevono istruzione se non le prediche strampalate del padre.
In questa bolla, la sanità pubblica è una fonte del Male e nessuno della sua famiglia si cura con medicinali tradizionali, con medici, ambulatori o ospedali, solo con gli unguenti naturali che prepara la madre, convinta di trasmettere la sua energia al preparato passando l’ampolla che lo contiene nel cerchio delle dita e sicura che basti uno schiocco di pollice e medio per capire sintomi, la diagnosi e preparare una cura.
In questa bolla, il padre è un capo e un profeta e comanda, la moglie ubbidisce e difende e protegge, i figli eseguono e tacciono e non esiste nulla di male dentro le mura domestiche, se segui il volere di Dio. Semplicemente non è previsto che accada. In questa bolla non è previsto un fratello violento che ti spezza le ossa e ti caccia la testa nel water sporco, non c’è il sopruso fisico o la disobbedienza o la reazione. In questa bolla non si subisce, ci si accomoda, ci si adegua. In questa bolla non si reagisce, se c’è una punizione, allora esiste per forza una colpa, anche se non lo sai, anche se non lo capisci, anche se non hai fatto nulla. In questa bolla le donne crescono figli, sorridono, accettano, nascondono i lividi e le lacrime e le fratture e il dolore e portano vestiti lunghi e accollati e restano in silenzio anche se qualcuno, per una caviglia esposta o un sorriso o una recita scolastica, decide di chiamarle puttane.
È una realtà folle, certo. Ma che cos’è la follia se fin dalla nascita conosci solo quella?
Quanto conta la storia passata, se non la conosci? Quanto conta la realtà per come è, se ogni cosa è il frutto di un complotto? Quanto incidono i fatti e la conoscenza se ne resti all’oscuro o lo rifiuti, se la conoscenza scientifica è una truffa, le medicine un veleno e l’unica verità è quella che puoi sentire a pelle, capire nella tua presuntuosa ignoranza, individuare a sensazione, credere per Fede?
Quanto assomiglia, se vi fermate un secondo a pensare, a qualcosa che avete sentito e visto in questi anni?
Se penso alla realtà che viviamo ogni giorno, la prima parola che mi viene in mente è paura, la seconda è Fede.
E non sto parlando di Dio o Allah. Solo di qualcosa in cui credi senza bisogno di avere le prove.
Tara cresce in questa bolla, Tara che è l’autrice della storia e anche la protagonista, chi la racconta e chi l’ha vissuta.
E se avesse voluto raccontare una storia e mettere in metafora quello che accade oggi, qui e ora, nel suo Paese e nel nostro e nel mondo intero, avrebbe finito per scrivere la stessa storia. Eppure è accaduta molto tempo fa, perchè Tara Westover, la scrittrice e il personaggio, ha trentun anni e la vicenda che leggiamo e che ci aggredisce come un vestito fradicio, comincia all’inizio degli anni Novanta. Non c’era nulla di quello che conosciamo oggi, non sotto i riflettori, forse in embrione, in silenzio, in privato, nei bar, nelle mura di casa.
Cosa succede quando l’amore per la tua famiglia, per il luogo che chiami casa, è l’incudine che ti trascina a fondo, che finirà per toglierti il fiato e ucciderti?
Cosa ti salva, quando tutto sembra perduto? Cosa ti salva quando la follia del mondo in cui vivi comincia a chiamare follia il tuo desiderio di sopravvivere?
Te stesso, sembra dire la voce della protagonista. Sei tu l’artefice del tuo destino.
Può aiutarti la tua capacità di riconoscere giusto e sbagliato, vero e falso, può aiutarti l’istinto di sopravvivenza e la curiosità di scoprire cosa accade fuori dalla tua bolla.
Più di tutto ti aiuta conoscere, studiare, capire. Così, mentre la follia del suo mondo si trasforma in ricchezza materiale, smodata, infinita, assurda, Tara trova il coraggio di andarsene e comincia a studiare. Dire che ce la farà e alla grande è quasi banale, visto che è lei, quasi analfabeta fino a diciasette anni, che scrive la sua storia.
È tutto vero?
Vogliamo credere che un riscatto sia sempre possibile? Che la forza che ti consente di restare al mondo, la solitudine dell’oppressione, il desiderio di sopravvivere, siano gli stessi che ti cambiano e come un elastico ti spingono lontano? Vogliamo credere che sia sempre possibile migliorare, fuggire, scappare anche da noi stessi, anche dai propri sentimenti quando sono destinati a seppellirti? Vogliamo credere che la cultura sconfigga sempre l’ignoranza e che la supertizione e la follia siano sempre riconoscibili anche quando sono l’unica cosa che conosci? Vogliamo credere che possa accadere, che sia accaduto, anche una sola maledetta volta?
Allora sì, Tara Westover è la scrittrice e il personaggio, e la sua storia su carta è la dimostrazione che tutto è possibile.
Ma se fosse una storia di finzione cambierebbe qualcosa?
Certo, se la Tara che scrive – una lingua semplice, efficace, non letteraria, ma asfissiante – e la Tara personaggio non fossero sovrapponibili, si spegnerebbe il prodigio di guardare in faccia questa donna di poco più di trent’anni, ascoltare la sua voce e sapere che ce l’ha fatta, contro ogni previsione, al di là di ogni ragionevole ipotesi.
Resterebbe, però, il potere immaginifico di una storia di redenzione e coraggio, l’ipotesi perfetta che la cultura e la conoscenza siano la strada che uccide definitivamente la barbarie, la suggestione illuminante che la scintilla per capire sia in qualche modo nascosta dentro di noi, anche questa una rivelazione, e che si può sempre sopravvivere, sempre, anche quando non resta nulla, anche quando ti senti solo, sbagliato, diverso, rifiutato, perduto.
Che esiste sempre una strada, che il tuo posto nel mondo ti sta aspettando, anche se lo ignori.
In fondo è questo il bello del romanzo – lo voglio chiamare così, romanzo – e di tutte le storie che, per un motivo o per un altro, funzionano.
Ci credi, c’è una voce che non se ne va quando chiudi l’ultima pagina e sta parlando con te, proprio con te.
E sarebbe bello sperare che la realtà in cui viviamo – e il romanzo ne parla, che lo voglia o no – potrebbe, prima o poi, trasformarsi nella Tara che abbiamo appena letto, cacciare in un angolo il Medioevo, ferita, ma viva, orgogliosa della sua cultura, vincitrice contro le tenebre.
Sopravvissuta.
L’educazione
di Tara Westover
Traduzione di Silvia Rota Sperti
Feltrinelli, 2018