Ci sono storie che finiscono dentro altre storie quasi per caso.
Questa è una di quelle e comincia alla fine degli anni sessanta, potrebbe essere il 1967.
E’ la storia di un’amicizia o di un amore o di entrambe le cose, anche quando non potrebbe esserlo.
Allora, quando si incontrano a New York, sono soltanto ragazzi, vederli per strada non sarebbe sembrato strano a nessuno. Molti anni dopo, non sarà più così.
Lei viene da Chicago, vorrebbe fare la poetessa e lo farà.
Lui è nato a Long Island, è un fotografo – anche se forse lo sa soltanto lui – e la fotografa spesso.
Cinque anni dopo, nel 1975, lei pubblica il suo primo disco da cantante.
Si chiama Horses, è un pezzo della storia della musica mondiale e la foto di copertina, una delle più famose, la ritrae vestita da uomo, in bianco e nero, i pantaloni sostenuti dalle bretelle, la giacca sulla spalla, femminile e maschile e seducente, con quelle mani dalle dita lunghe e gli occhi socchiusi e che sembrano vedere tutto.
Quei due, che sono solo ragazzi, Patti Smith e Robert Mapplethorpe, resteranno amici per tutta la vita.
Molti anni più tardi, nel 1986, Robert fotografa ancora Patti. Questa volta il fondale è scuro, lei ha qualcosa che mi ha sempre ricordato il Rinascimento italiano, l’autoritratto di Raffaello esposto agli Uffizi e ci sono ancora le dita lunghe, ma gli occhi sono aperti, consapevoli, ti guardano, ti conoscono, ti affrontano.
Robert Mapplethorpe muore di AIDS tre anni dopo, nel 1989, ha fatto arte che molti hanno scambiato per scandalo.
A quasi vent’anni di distanza da quella foto raffaellita, Edward Mapplethorpe, il fratello di Robert, anche lui fotografo, mette ancora Patti davanti all’obiettivo e scatta un’altra foto, quasi che l’immagine del fratello fosse passata attraverso la macchina del tempo, la morte e la pellicola di una nuova macchina fotografica.
Patti Smith guarda nell’obiettivo, ha ancora le mani sollevate, questa volta entrambe, quasi un misto fra quella copertina degli esordi e l’immagine del 1986.
Nella mia fantasia ho sempre pensato che le due immagini riuscissero a cogliere una cosa impossibile, per le parole.
L’identità e il cambiamento che assorbe una vita intera, il fatto che diventi un altro, che il tempo ti cambia, ti lavora, ti distrugge da lontano e da vicino, eppure non è in grado di scalfirti del tutto, non sa arrivare fino in fondo, non può, non riesce.
Così, in un romanzo che parla del tempo, del dolore, della vita che resiste malgrado la vita, Patti Smith e Robert Mapplethorpe, non potevano restare fuori.
Ai due lati della stampa ha appeso due foto di Patti Smith. Nella prima guarda dritto in macchina, ha i capelli sciolti sulle spalle, una camicia nera appena visibile sul fondale scuro, la mano sinistra ripiegata sul petto, le dita aperte, come la metà di una preghiera, l’espressione fiera di chi ha appena preso una decisione importante. Nell’altra sono passati molti anni, indossa un cappello, una giacca, una camicia bianca, le onde dei capelli sono diventate grigie, accanto alla mano sinistra, quasi nella stessa posizione, è apparsa la destra e la fierezza è appena incrinata dal dubbio, come se il tempo avesse deluso le aspettative e spostato l’orizzonte.
Non accade mai come deve accadere, dice quella foto. Scordati di poterlo prevedere, dimentica tutto quello che sai.