Claude Lanzmann è nato nel 1925, è un intellettuale, un uomo di cinema, uno studioso. Ha una medaglia della Resistenza, la Legion d’Onore e molti anni prima che Steven Spielberg creasse la Shoah Foundation ha girato un documentario.
Ci sono voluti undici anni, si intitola Shoah ed è la pietra miliare della testimonianza sullo sterminio.
E’ uscito nel 1985 e per nove ore mette davanti a un microfono i sopravvissuti ai campi nazisti e qualche SS. Insieme alle loro parole, le immagini di quello che è rimasto, oggi, della macchina dello sterminio. A volte solo un campo, un filare di alberi, qualche rovina.
Bastano le loro voci, ascoltare, restare seduti in silenzio e lasciare che le parole compiano il loro lavoro.
Ho visto il film per la prima volta alla fine degli anni Ottanta, registrato in VHS dalla trasmissione notturna della RAI.
Una di quelle voci mi accompagna da allora. Si chiama Filip Müller, ha passato tre anni della sua vita nel Sonderkommando di Auschwitz, il gruppo di prigionieri che si occupava della camere a gas. Quando il campo venne liberato dall’Armata Rossa, aveva 23 anni.
Racconta delle pire a cielo aperto, della selezione, dell’arrivo al campo, racconta tutto quello che ha visto.
Racconta di come avveniva la finzione del lavoro e della disinfestazione.
Di un discorso fatto ai prigionieri da sterminare dal tetto del crematorio.
L’SS Aumeyer, con tono indulgente, spiega che i tedeschi hanno bisogno di manodopera, di lavoro, di muratori, elettricisti, sarti.
Spiega che lavoreranno e andrà tutto bene e che prima devono spogliarsi, con calma, perché i tedeschi hanno a cuore la loro pulizia e li faranno lavare, li disinfesteranno. I prigionieri sembrano sollevati, hanno sentito voci su cosa accade in quel luogo, ma lo fanno, eseguono l’ordine, non si ribellano, si spogliano. Di lì a poco saranno tutti morti.
Ecco, alla fine di questo breve racconto, Filip previene la domanda di Lanzmann che è anche la domanda di chi lo sta ascoltando, al riparo sul divano di casa o davanti a uno schermo.
Dice chi vuole vivere è condannato a sperare.
Da quella frase che non riesco a dimenticare, nel tempo, è nato questo romanzo.
Dal racconto di Filip Müller e di altri come lui, è nato Emile.
E il video che trovate qui sotto è una parte della sua testimonianza a Lanzmann.
Müller è dal minuto 41, se ne avete voglia guardatevi anche quello che c’è prima.
