Questo testo è apparso il 2 dicembre 2015 su illibraio.it
E adesso cosa si scrive?
La domanda mi è arrivata a bruciapelo, subito dopo gli attentati di Parigi. L’interlocutore voleva sapere se il 13 novembre poteva avere conseguenze anche sul modo di fare il mio lavoro, oltre che sugli equilibri e i conflitti del mondo in cui viviamo.
La risposta è sì, per forza di cose.
Se cambia il mondo, cambia il modo di raccontarlo, ma quella domanda si innesta su un ragionamento
più complesso che cerco di fare da un po’ di tempo e che non ha nulla da spartire con Daesh, il Califfato o il terrorismo di qualsiasi natura.
Riguarda la realtà, le parole, le storie e i lettori.
Anni fa, quando arrivò la televisione, l’informazione su carta fu costretta a ripensare se stessa. Non poteva più occuparsi solo delle notizie, quelle arrivavano in tempo quasi reale, sul piccolo schermo. Chi comprava i giornali, il giorno dopo, sapeva già tutto. Occorreva puntare – e in parte si è fatto – sull’approfondimento e il racconto. Non bastava dire che cosa era accaduto, serviva di più. Una necessità moltiplicata dal web, che riduce il tempo di latenza di un’informazione così tanto da arrivare alle dirette delle catastrofi, via social network e allo stesso tempo moltiplica all’infinito la possibilità di diffondere bugie costruite ad arte, con più o meno perizia.
Oggi, con le storie che raccontiamo, siamo di fronte almeno in parte alla stessa sfida, ammesso che quello che ci proponiamo sia sorprendere il lettore, trascinarlo da qualche parte, trascinarlo letteralmente, si tratti di situazioni o sentimenti, quasi contro la sua volontà.
Si tratta di esplorare, non di accompagnare.
Un romanzo è un luogo altro, per stare tranquilli c’è la televisione del pomeriggio.
Un tempo ero abbastanza convinto che il genere fosse quello che si prestava meglio. Si diceva continuamente – e non senza ragione – che il noir fosse in grado di cogliere le contraddizioni del suo tempo, i chiaroscuri, gli angoli bui della nostra epoca. In fondo c’era molto da raccontare, dal passato al presente. E c’è ancora.
Oggi, per quanto mi riguarda, quella convinzione è sfumata.
In parte perché l’idea di racconto mi sembra orientata verso la rassicurazione, l’esatto opposto. Siamo pieni di gialli, caos ricondotto all’ordine e circondati da un mondo reale in cui l’ordine è scomparso da un pezzo, bianco e nero sono colori per daltonici, il caos genera forme molto più complesse e indecifrabili di se stesso e la cronaca, quella imbattibile della quotidianità, propone a tutte le ore meccanismi narrativi complessi e sorprendenti, dal grottesco al catastrofico.
Aggiungiamo – e qui torno alla nostra latitudine – il desiderio molto italiano di cancellare con un colpo di spugna quello che è accaduto, si tratti del giorno precedente, del terrorismo, del fascismo. I fantasmi che ancora ci camminano a fianco sono una forma che teniamo ben nascosta dal lenzuolo, magari chiusa in un armadio, un po’ come il parente antipatico che è vietato anche solo nominare alla cena di famiglia.
Viviamo un momento molto strano, una lunga transizione che sembra non finire mai e muta in continuazione paradigma. Una pallina che ha cominciato a rimbalzare con il primo colpo di piccone berlinese del 1989 – che in qualche modo ha ucciso, per esempio, il romanzo di spionaggio come lo conoscevamo – e che ancora continua, mutando parabola, direzione, velocità, senza accennare a fermarsi.
Un’epoca da storie di confine, con l’obiettivo puntato dritto sulle persone, le loro paure, le vite che cambiano. L’epoca della perdita di orizzonte, dell’individualismo sfrenato, della ricerca disperata di una posizione nel mondo, della rabbia, dell’abbandono, della solitudine, della collera sfrenata, dell’assenza di certezze e della frantumazione dei rapporti umani, della disperazione, delle grandi migrazioni, va indagata con meccanismi narrativi nuovi che tengano conto dell’impossibilità ormai manifesta di restare al passo con la velocità del tempo, operando una trasformazione simile a quella che le serie americane – inglesi, francesi – stanno facendo nei confronti del mezzo televisivo.
Sto parlando di scrittura, sia chiaro. A tutti i livelli.
Penso a The Leftovers, alla prima serie di True detective, a Les Revenants, in cui una storia fortissima, spiazzante, fa da colonna portante alla messa in scena di un mondo all’apparenza distante anni luce dalla realtà, ma in grado di rappresentarla come pochi altri.
Tutti contesti di nicchia, se pensiamo al pubblico potenziale, ma fenomeni in grado di influenzare altre storie, come prime pedine di un domino che può davvero contribuire a uno sguardo nuovo sulla narrativa, facendo concorrenza al mainstream che dilaga, rassicurante, privo di pensieri e domande, in un mondo in frantumi.
La sfida mi sembra questa, almeno la sfida che mi interessa.
Oppure, in alternativa, e con un respiro all’apparenza diverso, tornare indietro, al passato, al racconto del percorso che ci ha portato fin qui, famigliare o personale, vero o inventato che sia, ma comunque rappresentativo di ciò che siamo, che abbiamo costruito o distrutto. Il centro è l’individuo, come è diventato quello che è, dove sta andando, dove vorrebbe andare, il suo rapporto col turbinare famelico del mondo.
Romanzi mondo o piccole storie umane, ma difficili da identificare, impossibili da chiudere in una scatola, che se ne freghino di appartenere a un genere, che vadano a caccia della loro voce.
C’è spazio per una narrativa così?
Questa potrebbe essere la seconda domanda, probabilmente quella fondamentale, se scrivere è ancora un meraviglioso lavoro da artigiano.
Eppure il tentativo bisogna farlo, per evitare, in un mondo che perde ogni giorno di più il significato delle parole, il rischio ormai concreto dell’irrilevanza.