Non mi sono mai preoccupato del genere delle mie storie.
Le etichette non mi appartengono, sono utili, nemmeno sempre, a incasellare i titoli nella sezione di una libreria.
Le storie scappano, scivolano, debordano e non mi piace dare loro una paternità a prescindere, un colore, uno scaffale.
Preferisco scriverle come sono, come le sento, nell’unico modo in cui le so far nascere.
A chi appartiene la notte è un romanzo, non cercategli un colore, non c’è.
Non cercategli una casella, vi prego. Scapperebbe, non sa stare comodo da nessuna parte.
Lasciate che faccia il suo dovere.
Vi racconti una storia.
Parla di prendersi cura, di famiglia – quella con cui sei nato, quella che ti sei scelto –, di storie indicibili o splendenti che vengono dal passato.
Parla di cercare il proprio posto nel mondo, di incubi e deliri, di fuga e sopravvivenza, di paura e orrore. Di razionale e irrazionale.
Dei misteri della vita degli altri, quelli piccoli, quotidiani e quelli giganteschi, che gli anni hanno sepolto sotto metri di terra.
A chi appartiene la notte è la storia di Filippo, della sua vita ricostruita a ritroso, alla ricerca di un motivo per un gesto che sembra non averne.
A chi appartiene la notte è una storia di donne.
Una donna è la protagonista, Irene.
Una donna, una madre disperata, forse sconfitta, è Dorina, che trascina Irene nella storia.
Sono donne quelle che aprono squarci, raccontano, ricordano, resistono, lottano.
È una donna dai capelli rossi, Ortensia, ad attraversare il romanzo con la sua vita da reclusa, prigioniera, sopravvissuta.
A chi appartiene la notte è la storia di una terra.
Una terra del cuore, perché casa tua è il luogo in cui senti di voler vivere, in cui appoggi il tuo metaforico cappello e non ha per forza a che fare con il posto che ti ha messo al mondo o cresciuto. Pensarlo, oggi, potrebbe addirittura essere rivoluzionario.
Le storie sono anche i luoghi e non sto parlando solo di ambientazioni, ma del mondo in in cui trascorri il presente e immagini il futuro.
C’è un posto con cui devi fare i conti, se vivi sull’Appennino reggiano.
La Pietra di Bismantova spunta da tutte le parti, basta un’apertura, un varco che allarghi l’orizzonte, è dietro una finestra, al di là di una curva, ovunque in quell’insieme bitorzoluto e irregolare di saliscendi verdi che è quella parte di Emilia. La vedi anche di notte, una tenebra più fitta, un frammento di oscurità.
Ci sono mille storie sulla Pietra – La Pietra, nessuno da quelle parti la chiama diversamente da così, articolo determinativo, non avrai altra Pietra al di fuori di lei – e senza la Pietra non ci sarebbe stato questo libro.
La Pietra è un totem, per chi ci vive accanto, e lo è anche per questo romanzo, che sulla Pietra comincia e finisce e intorno alla Pietra – anche geograficamente – si svolge.
Si chiamava la Pietra, la cartella che ho fatto sul Mac quando è arrivato il momento di scrivere le prime righe. E Pietra il raccoglitore di link con cui, molto tempo prima, avevo cominciato a fare ricerca. Geologia, leggende, storia, tutta roba che è finita di straforo nel romanzo o non c’è finita affatto. Uno sguardo dietro le spalle, oltre una collina, in un romanzo in cui gli sguardi, reali o metaforici, contano qualcosa.
Tutta roba che non leggerete o di cui vi accorgerete appena, il seme che ha fatto la pianta.
Sotto terra, al caldo.
pietra-bismantova
Prima di quell’inizio, sono passati tre anni. E in quei tre anni, dieci mesi interi senza scrivere una riga.
In fondo a quei dieci mesi è arrivato questo romanzo. Il mio romanzo d’Appennino.
Che hai fatto in tutti questi anni? chiede Moe a Noodles. Sono andato a letto presto.
Io non sono andato a letto presto, ho vissuto, mi sono spesso arrabbiato, ho lottato contro la sensazione di sentirmi in gabbia, ho contribuito a fondare un’associazione culturale di cui vado molto fiero, con la sua lotta, la sua piccola storia, ma soprattutto credo di aver pensato quasi senza interruzione al romanzo che spero leggerete.
Prima di quei link, prima della cartella e di qualsiasi parola elettronica, c’è stato un taccuino e una frase di Svjatlana Aleksievič – Esiste qualcosa di più spaventoso delle persone? – scritta al centro della prima pagina. Non so dove l’ho letta la prima volta, ma è stata il catalizzatore, l’interruttore che ha tolto il blocco. Per mesi ho vissuto con quel taccuino accanto, come una coperta. Non ci scrivevo spesso, ma avevo bisogno di averlo con me. Lo ricordo sul bracciolo del divano, l’ultimo romanzo di Claudio Magris aperto fra le mani, un romanzo da cui mi staccavo per prendere appunti, perché le storie sono anche suggestioni incomprensibili che ti vengono infilando la testa nelle storie, spesso distanti, che scrivono gli altri.
Un romanzo è anche una cosa che mescola insieme Damien Hirst, David Bowie, Claudio Magris, i Pink Floyd, Antonio Gramsci, l’opera lontana nel tempo di uno scultore a te sconosciuto, la tua vita, le vite degli altri, le storie che hai sentito e non sapevi di ricordare.
C’è stata una storia, molto tempo fa. Un abbozzo, un’idea. L’eco di qualche personaggio.
C’era il prototipo di Irene. C’era la prima scena, Filippo sulla Pietra di notte.
C’era una statua che avevo visto e che continuava a danzarmi in testa. Una statua velata. Una donna assisa in trono, coperta dal velo. Una donna che non era una donna, con troppe dita, forse la coda.
Era già finita in una scena de La puntualità del destino, ma non se ne andava e questa volta non mi interessava cosa ci fosse sotto al velo, ma chi l’aveva scolpita e perché.
Il Pittore, un altro dei personaggi di questa storia, è nato così. E con lui la sua casa, le sue creature, il bosco..
Ho sfogliato ore di fotografie per cogliere tutti i dettagli di quella casa, capire se potevo costruirla come l’avevo immaginata, se la luce era quella giusta e con lei i colori, i riflessi, le stanze. Ho cercato visi di sconosciuti e volti famosi e ripassato le centinaia di foto che ho scattato negli anni al luogo meraviglioso in cui abito.
Per la prima volta avevo bisogno di vedere, non solo di immaginare. A volte anche di sentire sulla pelle.
Sono salito sulla Pietra, sono stato a vederla di notte, da sotto, enorme, opprimente e bellissima al centro del buio. Ho visitato l’eremo, quando è ritornato alla cittadinanza dopo la frana.
Ho evitato solo un posto. L’ispirazione reale per Case Valenti. Prima o poi troverò la forza di andarci.
Non avevo un titolo.
Ho l’ossessione dei titoli, detesto non sapere come chiamare la storia che sto scrivendo, finché non ne trovo uno che mi soddisfa continuo a girarci intorno, alla ricerca del suono giusto, della frase giusta.
Questo è arrivato al concerto di Bruce Springsteen, San Siro. Ma non quella sera, dopo, ripensandoci. E la canzone a cui state pensando, quella notte che appartiene agli amanti, non c’entra nulla con la storia. Il Boss scrive e canta di una notte diversa, una notte che non taglia, ma accarezza, che protegge, accoglie.
Da una notte come quella del romanzo non si esce allo stesso modo in cui si è entrati.
A chi appartiene la notte è anche un gioco di specchi.
C’è dentro qualcosa che non rivelerò, che il romanzo stesso non rivela, anche se lo racconta.
Non sposta nulla nella storia, in qualche modo è la storia, un gioco all’interno del racconto.
Se lo leggerete, se lo scoprirete, fatemi un fischio.