Da qualche tempo, come un cambio di stagione, si parla spesso di infiltrazione della criminalità organizzata al nord. Chi ascolta la denuncia di turno, lo fa a volte con un tono di sorpresa o di sdegno, quasi fingendo l’aria indifferente di chi si trova in pubblico a indossare una camicia non proprio fresca di bucato.
“La mafia non esiste”, dice Marcello Dell’Utri in una famosa intervista a Piero Chiambretti. “Esiste un posto dove lei va a bussare e dice: permette? Qui è la mafia? Chi è il direttore generale?”
Non fosse un discorso serio, ci sarebbe da ridere.
E d’altra parte, a dare retta alle dichiarazioni pubbliche, ha ragione lui. Almeno con un sottile distinguo. La mafia al nord non esiste. Come se fosse un problema geografico o culturale. “La mafia è un modo di pensare”, dice sempre Dell’Utri nella stessa intervista. La gente della nostra terra non ha quella mentalità, ho sentito in questi giorni e mi scuso per la parafrasi.
Un anno fa, proprio di questi giorni, stavo lavorando alla realizzazione di qualcosa che ancora non aveva una forma definita.
Qualche mese dopo l’abbiamo chiamata Duemiladieci.
In quel programma la parola mafia abbiamo deciso di metterla in prima fila.
Il tentativo era quello di occuparsi di criminalità organizzata lasciando parlare chi la mafia, la ‘ndrangheta, l’ha guardata negli occhi senza abbassare lo sguardo o voltare le spalle. Gente a cui è cambiata la vita e che, magari, non l’aveva neppure messo in conto.
Era l’unico modo che ci sembrava possibile. L’unico che avevamo, in quel momento, per dire con chiarezza da che parte stiamo.
Uso il plurale perché l’orgoglio di quello che è stato realizzato, in questo Paese in cui la cultura e la legalità sembrano costrette alla latitanza, è di tutti quelli che hanno contribuito a far sì che la follia di un progetto diventasse la realtà di un istante.
Su quel palco di Duemiladieci, insieme a Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, a fianco di Giulio Cavalli – una delle dimostrazioni viventi che le parole fanno davvero paura – c’era Enrico Bini.
Era il nostro modo per dire che siamo con lui.
Ancora oggi.
Qui e ora.
Perché il tempo delle mezze frasi è finito, le insinuazioni sanno di rancido e i “ma anche” non hanno mai spostato di un centimetro la bussola delle cose.
Perché chi ci mette la faccia va sempre aiutato e sostenuto.
Perché le mafie si nutrono di distinguo e facili ironie.
Perché ci sono equilibri molto instabili e bisogna prendere posizione.
Perché fissare in certi sguardi e avere la forza di raccontarlo, denunciarlo, urlarlo a tutti quando molti fingono di non vedere, è una delle basi su cui dovrebbe fondarsi la convivenza di una comunità civile.
Perché la cultura della legalità è importante, ma c’è molto altro.
C’è la paura nella legalità. Troppa, ancora. E l’indifferenza della legalità, fatta di piccole speculazioni, di parole dette male che solo a sentirle pronunciare ti viene voglia di cacciarti un dito in gola e vomitarle lontano.
La mafia, al nord, c’è.
E bisognerebbe ripeterlo, invece di preoccuparsi di piccole o grandi manciate di voti. C’è da prima dei morti di ‘ndrangheta di Reggio Emilia, da prima che si sparasse anche una sola pallottola in qualunque posto con un accento simile al nostro.
Fare finta di niente non cancella il passato, non cambia il presente, non mette in moto qualcosa che serve a migliorare il futuro.
Forse, per ottenere un risultato, basterebbe ripartire da un po’ di verità.
Ammettere che abbiamo sperato di essere immuni, che non siamo stati in grado di capire che i cattivi, quelli veri, non si presentano con la pistola o il fucile, ma sono intestatari di un conto corrente con saldo a nove zeri. E indossano un completo di sartoria, invece della coppola.
Bisognerebbe ricordarsi che non va tenuto d’occhio soltanto il traffico di droga o l’usura, ma la gestione della logistica, l’edilizia, i trasporti, lo smaltimento industriale dei rifiuti. Rendersi conto che l’infiltrazione non è solo geografica, ma prima di tutto economica, nell’economia legale e si combatte anche aiutando chi l’ha vista, l’ha denunciata, chi ha fatto nomi, cognomi e ragioni sociali, chi si è fatto domande e ha cercato risposte, chi ha continuato a insistere, malgrado la corrente contraria.
Per questo c’era quel palco. E non era un piedistallo, sia chiaro.
Per questo su quel palco c’era Enrico Bini.
Educare alla legalità vuol dire anche stare al fianco di chi, in nome di quella legalità, lotta, si espone, rischia. Anche di questo l’organizzazione di Duemiladieci è orgogliosa.
E non è sempre così difficile.
Potrebbe riuscirci perfino la politica.