Ci sono storie che si possono sfiorare da tre punti di vista.
Le intenzioni di chi le ha create. Il risultato. Quello che avrei voluto vedere e che mi è mancato.
Le intenzioni di “Romanzo di una strage” sono meritevoli. Stupisce, più che altro, che in quarant’anni quelle stesse intenzioni il cinema italiano non le abbia mai avute.
Il risultato può piacere o no.
A me è piaciuta molto la ricostruzione dei rapporti umani. Le famiglie Pinelli e Calabresi, il rapporto Pinelli-Calabresi. L’aria pesante dentro la questura. Lo sguardo dolente di Fabrizio Gifuni che ricrea Aldo Moro. E il desiderio – forte, mi è sembrato – di far respirare l’aria, il clima.
Basta per dire che il film è riuscito?
Non lo so. Basta per dire che l’idea è una buona idea, questo sì. Necessaria, anche.
Continuo a chiedermi, però, cosa possa aver capito chi, quella storia, non l’aveva mai sentita.
Quanta verità gli sia arrivata, quanta confusione.
E qui arrivo a quello che non mi è piaciuto.
“Il fatto è che non si può fare un romanzo su una ferita aperta nel Paese”, scrive Ezio Mauro su Repubblica. “Al romanzo – che per forza di cose ha una sua necessità narrativa, nutrita dalla realtà ma anche autonoma, quando serve, e deve riannodare tutti i fili di una vicenda complessa nel capitolo finale – si contrappone il bisogno di verità che dura da più di quarant’anni, ed è stato deluso, mandato a vuoto, calpestato per tutto questo periodo, e ormai in modo irrimediabile.”
E’ tutto vero, ma parte dal presupposto sbagliato. Che il romanzo non contenga verità. Che trattandosi di fiction, ci si trovi per forza dalla parte dall’invenzione, nel territorio del “liberamente tratto”, con l’avverbio a interpretare i fatti più o meno alla larga.
Come se il Lee Oswald di DeLillo, per restare alle ferite aperte, non fosse in grado di raccontare quello vero.
E’ il punto debole del film. Quello che avrei voluto vedere e che mi è mancato.
Romanzo di una strage si concede il lusso di diventare romanzo proprio nella sua parte più debole, nell’incomprensibile scelta di sposare la tesi della doppia bomba e di modificarla (radicalmente) anche rispetto al saggio da cui l’ha tratta.
Mi sarebbe piaciuto che lo stesso coraggio o la stessa incoscienza fossero serviti a tenere nella storia di quella bomba alcuni protagonisti che non ci sono.
Mancano Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Carlo Digilio, tutto l’ordinovismo veneto condannato e poi assolto nell’ultimo processo.
Manca Pino Rauti, arrestato e poi prosciolto prima della morte di Luigi Calabresi che chiude il film.
Manca (ad eccezione di Freda e Ventura) il mondo dell’eversione nera del triveneto e quello, a meno di non rischiare grosso dal punto di vista legale, lo poteva raccontare solo un romanzo.
E qui ritorno al punto.
Si può, si deve, scrivere un romanzo su una ferita aperta del Paese. A patto, però, di avere rispetto della verità o di abbandonarla totalmente, in modo esplicito, senza fraintendimenti. Il romanzo ti consente di trasformare un personaggio in una persona, di raccontare l’umanità che si nasconde dietro un colpevole o una vittima, di entrare nei suoi pensieri, nelle azioni, nelle contraddizioni, nelle paure, nella follia o nella razionalità.
Non dovrebbe servire, come dice Mauro, a spostare la questione su un altro piano, “con codici diversi da quelli giudiziari e politici.” Ma a raccontare la verità, i fatti, il mondo che li ha circondati e generati, proprio nel nome delle “verità da noi conosciute” e che “chiedono di essere rispettate, scomode e testarde come sono”.
Quelle verità, proprio quelle, chiedono di essere raccontate e un racconto non è per forza finzione.
Diventa inutile, come è stato fatto, mettere in scena Mattei escludendo dalla storia Cefis. Anzi, peggio, diventa dannoso.
“siamo tutti troppo in credito di verità per accontentarci di un romanzo su una tragedia italiana che non riesce a finire proprio per l’incapacità del nostro Stato di indicare alle vittime e a se stesso le colpe e le responsabilità” conclude Ezio Mauro.
Per quanto mi riguarda credo che quel credito di verità abbia invece bisogno (anche) di un romanzo o di molti romanzi, ché le figure di quella vicenda che vanno raccontate sono molte. Un romanzo che le leghi e le racconti, un romanzo che aggiunga dimensione a un saggio o a un’inchiesta giudiziaria.
Un romanzo – parlo di cinema, di televisione, di narrativa – che aggiunga verità (sembra una contraddizione), invece di toglierla.
Un romanzo che renda giustizia.
Non mi sembra un compito impossibile.