Da parecchio tempo – e non per modo di dire – mi capita di ragionare sul lavoro che faccio.
Mesi fa ne parlavo con un amico scrittore e mi rendevo conto che la conversazione, ascoltata da fuori, poteva sembrare la lamentela di due comari che speculano sulla qualità delle pere o sui conti della spesa. Eppure il punto di partenza era molto diverso, alto, se volete e riguardava come fare questo strano mestiere, di cui il pubblico ha una percezione molto romantica, ma che spesso è più prosaico di tanti altri.
Quel discorso, alla fine, si era spostato su altro, ma non se n’era andato e in ordine sparso lo avevo ritrovato in una parte dell’intervista di Cristiano Governa a Luigi Bernardi, nelle parole di Simona Vinci per Nuovi Argomenti e nei due post che Giampaolo Simi ha dedicato a serie tv, romanzi e narrazione (prima parte e seconda parte)
In aggiunta, come ciliegina sulla torta, il rapporto Isfol che racconta – come fece De Mauro tempo fa – di italiani incapaci di capire un testo di media complessità, quasi analfabeti funzionali e i dati dell’editoria italiana con numeri in discesa perenne e la novità (?) di minori traduzioni di testi all’estero.
Tutto questo come si tiene, direte. Si tiene ed è proprio il fondo di quella chiacchierata con l’amico di cui parlavo sopra.
Provo a spiegarmi per punti, vediamo che succede.
1. Chiunque faccia il mio lavoro e non produca best seller da 100mila copie, sa che sta diventando molto complesso riuscire a pubblicare storie che abbiano un minimo di complessità narrativa. Non sto parlando di pagine, tutt’altro. Sto parlando di scrittura, approfondimento dei personaggi e dell’intreccio, curiosità nell’identificare le dinamiche, desiderio che il lettore ragioni sulla storia, non sia portato a spasso mano nella mano e considerato un idiota a cui spiegare l’ovvio.
Sto parlando, scusate la generalizzazione, di fare lo scrittore sul serio. Penso, ad esempio, a quelle poche parole con cui Easton Ellis lascia intuire in fondo ad American Psyco che tutto quello che ti ha raccontato poteva essere un delirio. O alla capacità straordinario di rivoltare il racconto che Lehane usa in Shutter Island. O, per restare a uno degli scrittori citati sopra, a quella meraviglia de Il corpo dell’inglese.
Ecco, tutta questa roba non si può più fare. O si può fare a patto di resistere, lottare e cedere su molti fronti. O, anche, di rinuncie spesso dolorose, umane e professionali.
La parola d’ordine è semplicità. La semplicità, secondo l’editore, vende. L’etichetta, vende. Devi appartenere a un genere. Appartenere quasi con l’etica dello schiavo. Starci dentro, a mollo. La gente deve vedere l’etichetta e sapere se sei un detersivo per i piatti o un collutorio. Non basta quello che racconti. Per paradosso e per spiegarmi meglio, Delitto e Castigo sarebbe un noir e se uno scrittore italiano o uno straniero sconosciuto facesse arrivare a un editore il manoscritto di Rumore Bianco di DeLillo (ma anche de L’uomo che cade o de I nomi) non verrebbe pubblicato. Sono pronto alle smentite, ma sono convinto che sia così. Infinite Jest lo rifiuterebbero tutti. Che cos’è? Un romanzo di fantascienza? Di cosa parla? Se Mario Rossi o John Smith avessero scritto 1Q84 l’avrebbero tenuto nel cassetto o pubblicato con una piccola casa editrice e scarsa possibilità di distribuzione e conoscenza. Che cos’è? Un giallo? Un noir? Un romanzo di fantascienza? Potrei andare avanti all’infinito, ma credo si sia capito.
2. I libri non si vendono più. La conseguenza diretta (a cadere anche dal punto 1) è che si paga sempre di meno chi li scrive.
Legge di mercato ovvia, ma con una variante notevole negli anni. Un tempo i forti guadagni degli autori che tirano servivano a far crescere gli autori che li avrebbero sostituiti. Oggi il conto economico di un libro si apre e si chiude (quasi) su se stesso. Si investe su chi dà ritorno sicuro. E si investe per il ritorno che si è sicuri di ottenere, con pochissime eccezioni.
E’ la regola dell’economia, un gioco a cui stai se vivi nel mondo e non nell’iperuranio, se credi di dover affrontare la realtà e non sognare Gaia, ma è un gioco che ha forti conseguenze. Così come i grandi gruppi editoriali, proprietari di catene di librerie e della distribuzione, devono far quadrare i conti a tutto tondo e quindi vendono gadget, cibo, creano portali e tentano di sopravvivere nella giungla, così chi scrive deve fare i conti con le bollette e la spesa.
Intendiamoci, lo ha sempre dovuto fare, di soli romanzi campano in pochissimi, si vive di scrittura intendendola in senso molto largo. Però la borsa si è stretta e parecchio. Se all’estero non comprano più i nostri romanzi, se gli editori pagano sempre meno, il problema esiste. E per la maggioranza di noi che fa un doppio lavoro, è obbligatorio ragionare sulla fonte di reddito anche in funzione dell’incasso.
Se prima ci si poteva dedicare con più attenzione a quello che scrivevi, metterci più tempo, sacrificare l’altro lavoro per scrivere romanzi, perché alla fine i conti tornavano, oggi è sempre più difficile. Devi scrivere di più e la quantità non è quasi mai amica della qualità. Oppure – e questo è un altro rischio – far diventare la scrittura un passatempo, una cosa che fai da dopolavoro ancora più di adesso e che, con la stanchezza e la vita che preme, con la famiglia e il tempo, rischi di non fare più.
Dimenticate il fuoco della scrittura, smettiamola con l’idea romantica di chi si mette a tavolino e sforna storie perchè ha il fuoco sacro.
Il fuoco sacro esiste, la passione deve esserci, ma esistono anche le bollette del gas e della luce. E se i libri non le pagano più, qualcosa le deve pagare.
Non vorrei scendere al livello del suolo, ma tanto vale parlarci chiaro.
3. Quello che ha scritto Giampaolo è sacrosanto. Perché devo leggere Dicker (mollato a pagina 30) quando posso guardare Homeland? O The Newsroom? O The Killing? O Breaking Bad? Aggiungo una domanda in più: perché non riesco più a trovare (da lettore) una storia che mi appassioni così? Perchè nessuno le scrive? Perchè nessuno le pubblica o perchè nessuno le comprerebbe?
Lo ripeto: la colpa è di tutti, non degli editori. Di chi scrive i libri, di chi li compra, di chi li pubblica e anche di chi li recensisce (e sarebbe un discorso ancora più largo). Le grandi serie Tv prendono il posto del feuilleton, Giampaolo? Sì, ma vado oltre. Prendono il posto di quel sano intrattenimento che noi (generalizzo) non sappiamo più produrre. Al netto della strana esterofilia dei lettori italiani per cui non leggerebbero con gli stessi numeri un Connely nato a Cusano Milanino e allargando il piano alla produzione letteraria internazionale, quante cose sono uscite che valessero una delle serie citate sopra? Che facessero venire voglia di scoprire come va a finire più di una puntata delle prime serie di Lost? Che sapessero costruire un personaggio come Carrie di Homeland? O la Linden del primo The Killing o Luther? Quante? Io non ne ho lette, forse sto invecchiando.
E quanti sono disposti a rischiare per far crescere la qualità. Quanti, per esempio, possono permettersi di fare il lavoro che fa la AMC in America? O la HBO?
Aggiungo una provocazione. La televisione italiana, tutta, dove si piazza in un mondo come questo? Se Boris e Romanzo Criminale hanno avuto il successo che hanno avuto e senza un nome di richiamo, forse bisognerebbe farsi una domanda.
4. Brevissimo. I libri a 9.99 erano un problema, non un’opportunità. Con quei costi, da qualche parte devi tagliare. Chiediamolo dentro le case editrici, agli editor bravi che ancora ci sono, cosa vuol dire produrre un libro di qualità. E non abbiamo paura degli ebook, usciamo dalla faccenda che il libro deve avere un profumo. Il libro deve avere una scrittura. Che sia di pixel o di carta, poco importa. Quando si rischia l’estinzione non ci si preoccupa della tinta dei capelli.
Quindi, che si fa?
Non si smette, è chiaro.
Se la gente compra Dicker si scrive come Dicker?
Se la gente compra gli Harmony venduti con grande capacità come porno soft, si scrive un Harmony?
In un panorama in cui viene premiata la semplicità al limite del banale, in cui si eleva a letteratura erotica roba con cui Miller o la Nin non uscirebbero nemmeno a cena, in cui si cerca il già sentito, il già detto, in cui in metropolitana si spippiola con il telefonino e non si legge più, in cui il direttore del Financial Times spiega che il giornale deriverà dal web e non viceversa, in cui chi dovrebbe leggere i libri fatica a capire una mail di 5 righe, in cui leggi su Anobii che Mario Desiati dimostra “un certo talento” o che un capolavoro della letteratura andava “sforbiciato di almeno duecento pagine”, in cui i libri più chiesti nelle biblioteche sono la trilogia erotica di Rizzoli e nessuno chiede in prestito Madame Bovary, in un panorama come questo dove tutto sembra pianificato a tavolino e il direttore marketing è il vero direttore editoriale di fronte a un pubblico che non sa più cosa fare e che fatica trovare un libraio (mestiere a rischio estinzione più del triceratopo), cosa si fa?
Non ho una risposta, è ovvio. E’ un ragionamento anche di pancia, butto lì uno spunto di riflessione, se qualcuno lo vuole raccogliere e ci sarebbe molto da dire. Andrea Cotti su Facebook mi scrive che bisognerebbe ragionare della forma romanzo. Parliamone.
Intanto continuo a scrivere come sono capace e come ho fatto finora.
Ma non mettiamo la testa sotto la sabbia, tutti quanti. Sotto la sabbia manca l’ossigeno.
 
Sullo stesso argomento:
Perché Fabio Volo non c’entra niente
Ebook, Rete, autopubblicazione e community