Perché un libro sulla Shoah nel 2014?
Ho già sentito la domanda tre volte, da quando il viaggio di Dovrei essere fumo è cominciato e in fondo non è una questione banale.
Ho provato a trovare una risposta convincente, non superficiale, qualcosa con cui sfuggire alla verità che le storie arrivano quando arrivano, non c’è una regola e nemmeno una scelta ponderata. Hanno il loro momento e lo sfruttano, come una ballerina di fila e scopri solo col tempo qual era la ragione ultima, quella profonda, che ha portato a galla un racconto invece di un altro.
Così, ragionando, mi sono reso conto che una risposta c’era, semplice quanto la curiosità che la richiedeva e non aveva a che fare con la memoria, con la necessità spesso retorica di ricordare perché si deve. O almeno non solo.
Piuttosto con la realtà.
Era una storia che parlava di adesso, qui e ora, di quello che ci succede intorno.
Può sembrare assurdo, sono passati settant’anni, gli ultimi venti hanno sconvolto il modo di intendere la società, la vita quotidiana, perfino i rapporti interpersonali, la morale è cambiata almeno una decina di volte, eppure è così.
Qualche settimana fa ragionavo sul significato delle parole, un’ossessione per chi scrive, un’ossessione che andrebbe condivisa, perché tutto nasce da lì, ma proprio tutto. In questi giorni – ma è una riflessione più lunga – mi è capitato di parlare di rabbia, di odio, dell’incapacità di trattenere le proprie pulsioni, del desiderio fisico di trovare all’esterno un colpevole per quello che accade, privato o pubblico che sia, anche quando un colpevole è evidente che non esiste. Può renderci fragili, insicuri, spaventati, ma a volte le cose accadono senza un motivo né una colpa.
Dovrei essere fumo parla del significato delle parole, di rabbia, di odio.
La Shoah parla del significato delle parole, di odio, di rabbia, di silenzio, di colpa.
Parla di oggi, a noi, tutti quanti e comincia, appunto, con il linguaggio.
Nel 1948 un giovane studente di diritto pubblico e scienze politiche comincia un viaggio che finirà per riempire tutta la sua vita. E’ nato a Vienna e nel 1938 se n’è andato negli Stati Uniti, in fuga dalle leggi razziali. Torna in Europa durante la seconda guerra mondiale, è un soldato nell’esercito americano e a guerra finita comincia la sua ricerca. Quel ragazzo è morto nel 2007, si chiamava Raul Hilberg e non c’entra niente col romanzo, ma se volete capire qualcosa del meccanismo dell’Olocausto dovete leggere La distruzione degli Ebrei d’Europa, che in varie edizioni costituisce l’opera di una vita intera.
Raccontando la macchina della Shoah descrive un processo logico, ineluttabile, in cui una fase è legata alla precedente da un nesso di causa effetto, prevedibile o imprevedibile che sia.
I campi di sterminio sono una conseguenza logica dei campi di concentramento. Il concentramento, dell’esproprio e dell’espulsione dalla società.
L’espulsione dalla società, delle leggi razziali.
E in cima, come il primo tassello del domino, la definizione di Ebreo, il significato di una parola, da precisare con cura, svilire, attenuare, modificare, contorcere, finché non produce il risultato esatto, quello che serve allo scopo.
Per scrivere le leggi razziali occorreva trovare il modo di definire legalmente una razza, nero su bianco, parola per parola. Servirono anni per trovare quella definizione, anche utilizzando i tentativi del passato, perché l’antisemitismo non l’ha inventato il nazismo e non è morto con lui. E fu quella definizione, quella parola a cui si era cambiato significato e tutte le parole che vennero addirittura inventate per consentire che quel significato cambiasse, a consentire le leggi razziali e l’esproprio e l’espulsione e i campi di concentramento e quelli di sterminio.
Conoscete un’epoca più efficace di questi tempi nel cambiare il significato delle parole?
Conoscete un’epoca più efficace nel rendere negativo un vocabolo che non lo è?
Nel discriminare in nome di un dettaglio? Nel dividere il mondo in due, buoni e cattivi in nome di invenzioni lessicali e nel pretendere eccezioni con mirabolanti evoluzioni linguistiche?
C’è qualcosa di meglio di oggi per scatenare la violenza nascondendosi dietro una frase?
Ecco perché ho scritto di Shoah, è questa la mia prima tessera del domino.
Le parole definiscono noi stessi, prima del vocabolo.
Sono il gene singolo della catena DNA che rappresenta quello che siamo.
Cambiarle non è mai un dettaglio, le conseguenze, presto o tardi, si vedono.