Ad anni alterni, gli Oscar riescono a stupirmi.
Era successo due anni fa, con “The Hurt Locker”, il bellissimo film della Bigelow. E quell’anno, il godimento era stato ennuplo.
C’era la soddisfazione di veder vincere lei, che adoro e a cui devo infinita riconoscenza per quel gioiello assoluto che è Strange days.
E, non ultima, la sconfitta di Avatar, il film più inutile e meno innovativo di mister Cameron. La dimostrazione che il cinema non si può ridurre a tecnologia, ha bisogno dell’anima.
Così, quest’anno, dopo la vittoria classica de “Il discorso del Re” (ma quanto era bello “Il cigno nero”!) si torna a rischiare. E si rischia, proprio seguendo la strada opposta alla tecnologia. Nell’anno delle pellicole sulla storia del cinema, vince “The Artist”, un film muto.
Un bellissimo film muto.
Non ero riuscito a vederlo, prima dell’Oscar e la vittoria mi ha reso possibile il recupero nella sua dimensione naturale. La sala.
La cosa che mi ha colpito di più è la mancanza di sorpresa.
Vedere un film muto nel 2012 – e The Artist è un film muto, esattamente come te lo aspetteresti – non regala nemmeno un secondo di fastidio o di noia.
Quelle che nel film, con una straordinaria autoironia, chiamano smorfie, fanno parte della storia, della messa in scena. Esagerando, della scenografia.
Non c’è niente di sbagliato e non c’è niente di incomprensibile nelle immagini che scorrono sullo schermo. E non importa nemmeno capire cosa si stanno dicendo i personaggi di cui intuiamo il labiale.
E’ tutto preciso, definito, divertente o emozionante. Unico.
La dimostrazione ultima, sintetizzata all’osso, che la prima cosa che serve è una storia da raccontare.
Senza, il castello crolla.
Ora, ho paura degli emuli. Dell’effetto codice da Vinci, dell’anno degli asteroidi che ha prodotto film clonati uno dall’altro.
The Artist non è replicabile e per lo stesso motivo per cui è perfetto.
Non si possono fare film muti nel 2012, è arrivato il sonoro.
Quello che emoziona e che vale la pena raccontare, però, non è cambiato molto da allora.