Uscito sul corriere della sera di Bologna, il 14 agosto
Piazza Maggiore, quattordici agosto. Dunque niente concerto. Sono mesi che ci giriamo intorno e alla fine eccoci qua. Niente palco, niente pubblico, siamo tutti chiesa e crescentone. La piazza deserta pare un rifiuto che sapevi di affrontare e che, fino all’ultimo, hai sperato fosse un bluff. Sembra più grande, pare impossibile che sia stata piena fino a ieri, che quello schermo cinematografico, con tutta la gente sotto, fosse davvero lì. Eppure, allo stesso tempo, il deserto di piazza Maggiore non è uno spazio vuoto. Fa parte dell’attesa e della delusione perpetua in cui Bologna vive tutto l’anno, in una catena infinita di aspettative che passano dal desiderio del grande evento ai grandi classici del cinema fino alla quiete tempestosa del ferragosto in arrivo. Di certo ci arrabbieremo, nella città in cui le polemiche non chiudono mai per ferie, per il concerto mancato, per l’evento di cui siamo orfani forse temporanei e che, da Dino Sarti a scendere, ha trasformato la città d’estate in un ritrovo simile alla sagra paesana, facendo scoprire volti di chi pensavi fosse emigrato in altri lidi, da Cervia a Copacabana. Il massimo che ci aspetta è un’anguria itinerante, un gelato, una granita o un gradino da cui guardare il niente sperando che il caldo non ti asciughi la lingua in bocca. Devo essere sincero, non mi scandalizzo per l’evento mancato e mi sembra che la piazza vuota evochi più domande che risposte. Oltre ad una certa austerità, figlia di tempi più chiari e meno convinti di essere ricchi, che in un agosto di alberi scomparsi, decreti, tagli, mercati e confusione, vorrebbe avere un barlume di chiarezza. Mi piacerebbe però che servisse, quel silenzio, a farci domande su quello che vorremmo e che, dal sedici di agosto in poi, cominceremo ad aspettare. Chiediamoci, per esempio, se abbiamo bisogno di una luce singola che richiami tutti quelli che sono rimasti a casa o di qualcosa di più articolato, che aggiunga pubblico da fuori ai forzati del lavoro e ai tanti costretti a restare digiuni di vacanze. Chiediamoci se quello spettacolo di cui quest’anno odiamo tanto il silenzio, lo vogliamo in scena solo per noi, per ricordarci chi siamo e che ci siamo o per far diventare l’agosto di Bologna qualcosa di diverso. E visto che ci siamo (che la solitudine estiva può anche favorire il ragionamento) proviamo a capire se non ci sia una parte della città che ama la Bologna d’agosto, quella del silenzio, dell’assenza di rumori, magari dei negozi chiusi presto e degli studenti tornati a casa. Una Bologna quasi lunare, da trapiantare nelle altre stagioni, per far stare zitte le polemiche, insieme ai rumori o per cominciare a lamentarci di qualcosa di diverso. Ancora una settimana e ci saremo dimenticati di tutto, il mondo riapre, l’abbronzatura sparisce e le mezze stagioni riprenderanno il loro posto nella banalità del mondo. La stessa categoria a cui, pensandoci bene, appartiene l’assenza del concerto di ferragosto. Un sipario di cartapesta dietro cui ci nascondiamo volentieri, in fuga perenne dall’unica cosa che ha davvero un senso compiuto. L’idea di quello che vogliamo mettere in scena in questa città. Quella di domani e di dopodomani. Con o senza il concerto di ferragosto.