C’è qualcos’altro che voglio provare? Non mi viene in mente niente. Ho tenuto in braccio una bambina appena nata, viscida e bluastra.Ho abbattuto un albero di Natale in un bosco di alberi in dicembre, ho insegnato a una bimbetta ad andare in bici; ho cambiato una gomma da solo, di notte, su un passo di montagna, nel bel mezzo di una bufera di neve. Ho fatto le treccine e mia figlia; ho guidato all’estero in valli inquinate, piene di fabbriche; ho viaggiato nell’ultimo vagone di un trenino traballante; ho fatto bollire patate in fornelletti da campeggio, su spiagge nere come la pece; mi sono lanciato varie volte verso la verità, dove le ombre sono di diverse misure, lunghe o corte; e so che l’uomo ride e piange, che soffre e ama, che ha il pollice opponibile e scrive poesie; e so anche che l’uomo sa di dover morire.
Che cosa rende una vita degna di essere vissuta?
Che cosa può farti provare ancora il desiderio di respirare, alzarti ogni mattina, esistere, quando credi di aver perso tutto, che ogni cosa che ti circonda – ognuna delle cose che contano – sia rotta irrimediabilmente?
Jónas ha quarantanove anni, è divorziato, ha una figlia, non va a letto con una donna da più di otto anni, sa aggiustare le cose, crede di aver fatto tutto quello che doveva e poteva e vuole morire.
Sua figlia è nata ventisei anni prima e non è sua figlia biologica. La madre, la sua ex moglie, glielo dice alla fine della loro storia, con la facile rudezza con cui l’indifferenza ferisce senza alzare la voce.
Quando Jóonas decide di morire, cerca di farlo in silenzio, frantumando il meno possibile l’esistenza dei pochi che gli stanno a cuore. Soprattutto non vuole che sia la ragazza a trovare il suo corpo, si arrovella alla ricerca di una soluzione alternativa finché si rende conto che ne esiste una sola.
Partire, non morire a casa.
Se ne va in un Paese appena uscito dalla guerra civile, le case ferite dai proiettili, le famiglie distrutte al loro interno, la vita che stenta a ripartire, ma che non si arrende.
Sceglie un albergo, l’Hotel Silence. È lì che dovrebbe succedere.
Eppure un albergo disastrato, in un luogo disastrato, è il posto perfetto per uno in grado di sistemare con pochi attrezzi una doccia che sputa fango, un armadio che sta per crollare, un impianto elettrico in crisi, una maniglia difettosa. Per spostare in avanti, un lavoretto dopo l’altro, un incontro dopo l’altro, una necessità dopo l’altra, la fine della sua vita. Per essere utile, avere un ruolo. Per aggiustare, non per distruggere.
E chi è nato sapendo riparare, può distruggere definitvamente se stesso?
Hotel Silence è un romanzo dolente e meraviglioso, che mi ha fatto pensare fin dalle prime righe a un altro capolavoro di vita e scrittura, Riparare i viventi di Maylis De Kerangal.
Una storia semplice che galleggia fra la morte e la vita come fra due facce del medesimo destino, che sfiora i dettagli banali che compongono le cose che contano, le tracce sottili e impercettibili che collegano gli esseri umani, le loro vite, le loro speranze.
Audur Ava Ólafsdóttir racconta magnificamente l’incontro di un uomo che vuole morire con un luogo che tenta di risorgere, la disperazione di chi non trova un motivo per vivere che si specchia in quella di chi, avendo perso tutto, non ha nessuna intenzione di arrendersi.
La vita che si riempie semplicemente vivendo, guardando, ripartendo ogni giorno, spostando in là il precipizio per occuparsi di una piccola riparazione, che sia un mobile, un utensile, un impianto, un uomo, una donna, se stessi.
Una manutenzione ordinaria dell’esistenza, della paura, della disperazione, in grado di disegnare un perimetro e riempirlo.
Si cerca di fare del proprio meglio, dice un personaggio, essendo esseri umani.
E colui che sa, ma non fa niente, ne porta la responsabilità.
Le società e le vite sono fatte di persone. A ognuno il proprio piccolo frammento, il proprio piccolo mondo.
A ognuno il compito di sorreggerlo e di sorreggere quello che gli sta a fianco.
In un mondo egoistico, individualista, cieco ai bisogni, sembra quasi una rivoluzione.
Hotel Silence
di Audur Ava Ólafsdóttir
Traduzione di Stefano Rosatti
Einaudi, 2018
Candidato al Premio Strega Europeo 2018