Tutti gli uomini sono creati uguali, a meno che non decidiamo che tu non sei un uomo.
Questa è una storia violenta.
Lo è anche se la violenza non è descritta, anche se la parola non indugia, le descrizioni sfiorano, i dettagli tacciono, le frasi mettono in scena, lasciano che tutto si svolga e se ne vanno.
È la storia di Cora, che quando nasce non sa cosa sia la libertà.
È figlia di una schiava, nipote di una schiava, nata in una piantagione della Georgia, profondo sud degli Stati Uniti schiavisti.
Cora non è un essere umano, è bestiame, soma, braccia da sfruttare, corpo per l’altrui piacere, proprietà che si acquista, si eredita, si vende, si compra, si usa, si tortura, si uccide.
Cora è una donna di colore, nata nel posto sbagliato del mondo, nel momento sbagliato della Storia. Uno dei tanti.
La ferrovia sotterranea, il bel romanzo che ha dato a Colson Whitehead il National Book Award e il Pulitzer, è la storia di Cora, di una sopravvivenza, una lotta, una fuga, una speranza. La storia di chi cerca un posto nel mondo in cui poter infine respirare, sedersi, attendere che il tempo passi, amare, invecchiare, costruire qualcosa.
Vivere, non restare viva.
La storia di un viaggio iniziato per caso.
La prima volta che Caesar propose a Cora di scappare al Nord, lei disse di no.
Sua madre, Mabel, era scappata senza una parola, senza lasciare traccia, invisibile ai cacciatori, svanita per sempre, quasi una favola della buonanotte, la fiammella di una speranza.
Forse farete fatica a entrare nella storia. Non perché la lingua sia complessa o la trama ingarbugliata, solo perché dovrete superare quella strana forma di consuetudine che avviene quanto crediamo di conoscere tutto. La mia generazione, all’inizio della lettura, potrebbe pensare a Radici. Chi ama il cinema a 12 anni schiavo, Amistad.
Cos’altro può succedere, che non sappiamo già? Forse nulla, tranne la vita di una persona. Identica, eppure diversa. Una vita che non sembra avere l’ambizione di diventare esemplare, solo di esistere, essere raccontata, non restare una proprietà di qualcuno, come un bovino, un paralume, un aratro o un paio di scarpe.
Si può sfuggire a un destino? Chissà. Di sicuro ci si deve provare.
Cora e Caesar scappano, Caesar è il primo compagno del viaggio di Cora. Un viaggio che sale dalla Georgia alla Carolina del Sud e poi alla Carolina del Nord, al Tennesse, all’Indiana e chissà dove ancora.
Un viaggio in cui la crudeltà del mondo non è solo la tenace ostinazione con cui il cacciatore di schiavi la insegue o la strada costellata di fuggiaschi impiccati – il sentiero della libertà –, ma le famiglie bianche che si affollano il venerdì nel parco pubblico del paese e attendono la predica e l’impiccagione. Madri, padri, bambini, anziani, in silenzio o vocianti, soddisfatti da un barbaro senso di giustizia e affamati di rivalsa nei confronti dei bianchi che nell’ombra, terrorizzati ma incapaci di restare a guardare, aiutano quei fuggiaschi, li accolgono, li proteggono, cercano di condurli in salvo.
La normalità dell’orrore, la banalità del male, identica in tutte le epoche, indifferente in tutte le stagioni.
Sei un uomo finché decidiamo che lo sei e meditate se questo è un uomo.
La ferrovia sotterranea del titolo era un’organizzazione clandestina e l’idea geniale del romanzo è di trasformare una catena umana di solidarietà, libertà e giustizia, in una vera e propria tratta ferroviaria, sotterranea, nascosta, scavata con la fatica delle mani di chi non si è arreso, punteggiata di stazioni nascoste sotto le case, gli empori, al di là di una botola, sotto la protezione di un tappeto. Stazioni spoglie o arredate, piastrellate o in terra scura, gestite da capostazione combattivi, attraversate da carrelli manuali, vagoni merci sfiniti, scintillanti locomotive rosse, un tunnel che sembra non raggiungere mai la superficie, che taglia un Paese grande come un continente, lavorando alle spalle della sopraffazione, ingannando la crudeltà, usando il genio per sfuggire alla barbarie.
In fondo è un tunnel anche la vita di Cora, schiava figlia di schiavi, stupita al pensiero che esistano neri nati liberi e cresciuti liberi e che continua a correre avanti, sperando che quel tunnel si apra, ci sia un’uscita, un luogo, una vita. L’unico modo per sapere quanto a lungo si è rimasti smarriti nelle tenebre è essere salvati, dice il romanzo.
Mi sono chiesto, chiudendo l’ultima pagina, se quelle tenebre si sono diradate, un paio di secoli dopo, una guerra civile più in là, nei gloriosi anni duemila, nell’occidente ricco del mondo.
L’America era un Paese razzista 150 anni fa e lo è tutt’ora, dice Colson Whitehead in un’intervista.
Tutti i popoli del mondo sono violenti, purtroppo è nella natura dell’uomo. Non sono soltanto i bianchi, gli europei o gli occidentali.
Tutti gli uomini amano la violenza e tendono a volere quello che non è loro.

Leggetelo, state un po’ male, ne vale la pena.
La ferrovia sotterranea
(The Underground Railroad)
di Colson Whitehead
Traduzione di Martina Testa
SUR, 2017
(foto tratta da http://www.artspecialday.com/9art/2017/03/25/tratta-degli-schiavi/)