Joseph ha un bell’incarnato chiaro, circondato da una montagna di ricci. Vive a Tel Aviv, suo padre è colonnello, la madre è nata e cresciuta in Francia. Famiglia borghese, una casa piena di luce, una sorella, alla sera si vede in spiaggia con gli amici e suona la chitarra davanti al fuoco. Vorrebbe fare il servizio militare, ma la visita di leva è impossibile da superare. Vorrebbe fare il musicista, l’artista.
Yacine ha la pelle olivastra, studia a Parigi, ma la sua casa è al di là di un muro, oltre un checkpoint in cui sfila mostrando il lasciapassare chiuso nella sua custodia rossa. Farà il medico e suo padre non può fare l’ingegnere, perché il permesso per lavorare oltre quel muro, in Cisgiordania, non ce l’ha. Yacine ha un fratello che odia Israle, gli occupanti, gli usurpatori, loro.
Joseph è ebreo, israeliano e Yacine palesinese, arabo, mussulmano.
Invece no.
Perché Yacine è Joseph e Joseph è Yacine e per uno di quegli scherzi con cui il Fato si diverte a mescolare le storie fin da quando gli esseri umani hanno cominciato a scriverle, i due neonati sono stati scambiati nella culla e il palestinese è cresciuto ebreo e l’ebreo palestinese.
Siamo il luogo in cui nasciamo?
La famiglia in cui cresciamo?
Siamo i geni che ci tramandano o la cultura che apprendiamo?
C’è un imprinting o resti per sempre quello che sei, da qualche parte, anche se non lo sai, anche se non lo saprai mai?
Il figlio dell’altra ha quasi il tono malinconico di una favola.
La violenza è tutta nei gesti, nei luoghi, nel filo spinato, negli occhi bassi e i pugni chiusi, negli sguardi di scherno o nelle frasi che ti sfuggono perché sei troppo abituarlo a sentirle o pronunciarle. Nelle idee impossibili da cambiare e che cambiano in fretta, quando ti entrano in casa e diventano un fratello che non sapevi di avere, una famiglia che non sapevi di avere, una vita che non sapevi di avere, una possibilità sfumata e ripresa per i capelli.
Un po’ troppo semplice, forse, ma la realtà è spesso una questione di sguardi.
Mea Culpa e viva le rassegne in provincia, me l’ero perso.