Dunque, a quanto pare, il congresso del PD si farà a ottobre.
Era in programma una riunione questo fine settimana ma è slittata alla prossima. Probabilmente si nominerà un reggente, uno di sinistra, visto che la rappresentanza dell’area nel governo è non pervenuta. Si parlava di Epifani, oggi gira voce che sarà viceministro all’Economia (sui nomi di Polverini e Biancofiore come sottosegretari sorvolo, è l’eredità di quanto accade), quindi probabilmente sarà qualcun altro.
Il punto, però, non è questo.
Il punto è non fare finta che non sia avvenuto il disastro partito con la candidatura Marini e concluso con il giuramento dell’unico governo possibile, passando per l’abiura di Romano Prodi. Il punto è quello che affronta Michele Serra su Repubblica di oggi, parlando di una classe dirigente di sinistra sorda alla base che l’ha votata, quasi infastidita dai successi ottenuti dalla mobilitazione dal basso (il referendum sull’acqua o le elezioni dei sindaci, per dirne una) e che pare del tutto ignara dei motivi per cui chiede la delega elettorale, vista la facilità con cui la ignora o consente che si dissolva.
Per quanto mi riguarda il governo Letta poteva anche essere l’unico governo possibile ed è vero che bisogna guardare avanti, che domani deve arrivare e dietro ci sono soltanto rovine, ma il modo in cui le rovine si creano non è un dettaglio, specie quando è sempre lo stesso. Perché se il governo di centro sinistra vero è uscito morto dalle elezioni, le alternative c’erano e se n’è parlato troppo poco. E perché se una nuova versione dell’incesto con il PDL era obbligata, c’è una certa differenza fra mettere insieme un governo che fa tre o quattro cose rapide e comuni e necessarie – legge elettorale, pagamenti arretrati delle PA, esodati – e poi torna a votare e il governo appena nato, sine die e con l’idea di montare una convenzione per le riforme che, per forza di Costituzione dovrà durare almeno un anno e mezzo.
Un anno e mezzo, tanto per ricordarlo, è più o meno il tempo di durata di Monti. Andate indietro con il tempo e fatevi un’idea.
Il PD che non va a congresso e prende tempo è un nucleo di sopravviventi asserragliato dentro un fortino, circondato da ogni lato, pungolato e aggredito da chi vorrebbe capire o avrebbe voluto capire o non è più nemmeno interessato a capire. Tutta gente che lo ha votato e che avrebbe meritato almeno un percorso trasparente e (per quanto possibile) condiviso fino alla tana del caimano.
E’ un partito in cui il leader in pectore Renzi può permettersi di dire che non si candiderà a segretario (troppo facile, Matteo, la politica è oneri ed onori), in cui si muovono visioni della politica quasi opposte (il partito di Barca non è quello liquido di Veltroni), in cui gli stessi parlamentari non riescono a trovare una ratio, basta guardare le lettere spedite alla direzione da molti di loro o leggere Pippo Civati. E’ un partito che ha bisogno di discutere e di aprirsi e che non vuole farlo, rinviando a dopo l’estate il confronto, magari nella speranza che la polvere cali, si depositi e ci si accontenti di quello che potrà fare Letta a Palazzo Chigi.
Così rischiano di suonare a vuoto le parole di Cofferati sugli errori del partito e la necessità di rilanciare un’idea di sinistra e non lo dice solo lui e rimane la sensazione di una enorme occasione che si sta lasciando perdere, perpetuando lo stesso percorso che contraddizione dopo contraddizione, ha portato al punto in cui ci si trova.
Le domande, in fondo, sono facili.
Che partito è il PD?
Dove guarda?
Chi rappresenta?
Che idea di società ha in mente?
E’ l’ABC della politica e da elettore sono le domande che mi sono sempre fatto.
Non trovando mai una risposta definitiva.
Immagino di non essere solo.