Quando cerco di ragionare su un fenomeno complesso parto sempre dai numeri. Deformazione professionale dal mio lato ingegnere.
Ha vinto Salvini, molto più del Movimento. Salvini, non il centro destra.
Aveva un milione abbondante di voti, un partito sfasciato, esausto, vecchio. Oggi quei voti sono quasi sei milioni. Dalle parti della Lega si è spostata l’equivalente dell’intera popolazione di Los Angeles. Se c’è un vincitore politico, è lui. Non condivido nulla di quello che dice, non lo voterei mai, ma la realtà è quella che è.
È accaduto per un motivo che mi pare facile da capire. Conosce l’epoca in cui vive, conosce bene chi vuole rappresentare, sa che argomenti funzionano nel bacino elettorale che gli interessa e li usa. Due argomenti, tre al massimo. Dritto al punto. Non funzionerebbero con altri elettori, ma non ha cercato di allargare il tiro, non ha voluto. Aveva un obiettivo preciso, un gruppo sociale e se lo è preso. Fuori da lì non lo prenderebbero mai in considerazione? E chi se ne frega. Sono sei milioni di voti. Forse non ne farà mai di più, ma ora li ha. E accanto a lui, il fu Silvio Berlusconi, numericamente immobile ai consensi del 2014 e con l’età che avanza.
Non mi sembra più fantascienza, visti i numeri, che da qui a qualche mese i sondaggi comincino a mostrare il sorpasso della Lega sul PD.
Immaginate il botto mediatico, se accadesse. Quando un mondo crolla, non lo fa mai in silenzio.
I voti dei Cinque Stelle sono due milioni in più del 2013, due terzi della città di Roma. Poco meno di cinque milioni in più del 2014, l’equivalente della popolazione di Sidney. L’elettorato del Movimento sale e scende, a volte scompare con le amministrative, separa distintamente le questioni locali da quelle nazionali. A Roma, per esempio, il consenso non è calato come avrebbe potuto, anche se la rielezione della Raggi sarebbe, credo, piuttosto complessa.
Poi c’è la sinistra. Quella di Liberi e Uguali, Potere al Popolo.
E il PD, con la sua vocazione da ippogrifo, tanti animali e nessuno, tante sembianze e nessuna. Centro moderato che si fa chiamare sinistra e in certi componenti lo è davvero, come in altri è conservatorismo puro, partito Stato, l’unico di cui, preso un argomento a caso del dibattito politico, non saprei intuire una posizione.
Il PD ha perso due milioni e mezzo di voti dalle politiche del 2013, cinque milioni dal leggendario 40% delle europee, l’ultima vittoria elettorale, l’unica, e priva di riscontri reali sulla vita del suo elettorato. Dalla non vittoria del 2013 è sparito un numero di elettori pari a due volte la popolazione di Milano. Dalle europee un numero analogo alla popolazione di Calcutta, quasi due volte Roma.
Per capire la proporzione del cataclisma che si è abbattuto non solo sul PD, ma su tutta la sinistra italiana, i numeri aiutano.
I due milioni e mezzo persi sono il doppio dei voti di Fratelli d’Italia. Quei cinque milioni di assenti sono quasi lo stesso numero dei voti della Lega, varrebbero il 15% alle elezioni.
È scomparso un popolo, crollato un mondo. Siamo a una nuova Bolognina, non a un passaggio qualunque. Non è crollato nessun muro, non ci sono simboli da togliere, parole da cancellare, un’intera tradizione che viene travolta dalla frana rapida e irrefrenabile della storia.
Quello che è accaduto è la fine di un percorso che, continuo a crederlo, si è perseguito con tenacia negli anni e non poteva che condurre a questo punto.
Il PD è quello che non è riuscito a eleggere presidente della repubblica il suo fondatore, Romano Prodi. Che ha ucciso da solo due suoi governi in una legislatura. Che non ha saputo rinnovare negli anni una classe dirigente che ne aveva un gran bisogno. Che si è trovato alla fine dell’epoca di Berlusconi, nel 2011, del tutto scoperto sul piano politico, quando è stato chiaro che il vero collante della sua classe dirigente, il mastice che li teneva insieme, era l’uomo di Arcore. Che ha saputo produrre la proposta più di sinistra che sia mai nata a quelle latitudini, il Bersani-Vendola, e ucciderlo dopo pochi giorni, sostituendolo con le larghe intese scelte come destino di una legislatura intera.
Renzi è un catalizzatore, un sintomo, non la malattia. Un sintomo devastante, perfetto per un partito personale, fideistico e anti ideologico, ma incapace di tenere insieme una realtà complessa, per lo più non interessato a farlo. Ha contribuito a spaccare un popolo, ha cercato sempre la rottura, ha abbassato il pedale a tavoletta e ignorato le curve, i dossi, il clima, la strada, tutto.
Eppure continuo a pensarla come Petrolini. Non ce l’ho con te, diceva allo spettatore rumoroso, ce l’ho con quello di fianco che non ti butta di sotto.
L’ignavia e la timidezza di un gruppo dirigente che si è abbandonato all’arroganza del capo, arroganza evidente, senza riuscire a fare altro che una debole opposizione pubblica, un ditino alzato che non portava a nulla, se non allo sberleffo, al sorrisino. Nessuno lo ha mai sfidato alla pari, nemmeno chi, in alcuni momenti storici, avrebbe avuto la forza di combatterlo. Mediatica, politica, culturale. Ci sono un paio di nomi che vi verranno in mente. E nessuno lo ha mai abbandonato.
Fino all’addio fuori tempo massimo, dopo aver votato tutto o quasi tutto, e alla reciproca disfatta. Da una parte l’arrocco un po’ infantile di chi sembra sperare che con Sansone muoiano i Filistei – e forse progetta un partito personale, l’ennesima partita in proprio e il risultato non lo schifa fino in fondo – e dall’altra l’elezione di pochi rappresentanti che, difficilmente, potranno rappresentare qualcosa.
Sono lontano anni luce da questo PD, incapace di cogliere la lezione che veniva da fuori confine, dalla Francia, dalla Germania, dall’Inghilterra. Incapace di rendersi conto che parlare di dati ISTAT, PIL, tasso di disoccupazione non serve a niente, se i risultati economici non si sentono sulla pelle della gente, le diseguaglianze aumentano e dai la sensazione di non stare quasi mai dalla parte dei più deboli, dei lavoratori (e l’entusiasmo intorno a Calenda mi pare significativo). Incapace di capire che i moderati in Italia non esistono e non ha senso cercarli. Votavano e votano B o la Lega o i 5S. Non votarono Monti. Non votano Renzi. Non ha senso perdere un’identità per rincorrere il nulla. E non ha senso nemmeno avere il potere per il potere, la vittoria per la vittoria.
Vincere le elezioni serve a realizzare un’idea, non a prendere voti sulla base di un programma e poi fare quello che capita con chi capita.
La buona scuola, il jobs act, la sostituzione di Letta, tenere in piedi per tutta la legislatura un governo di larghe intese che avrebbe dovuto avere vita brevissima, la gestione del referendum, la distonia continua a sfrontata fra quanto si dichiarava e quello che si finiva per fare, la lotta feroce e stupida a tutti i corpi intermedi, dalle province ai sindacati, il rincorrere i Cinque Stelle e la destra sui loro temi dando l’impressione di non averne mai dei propri, la derisione quotidiana del lato sinistro del partito, dimenticando che non solo di classe politica si trattava, ma di elettori, gente che è stata trattata per anni come comparse per primarie più o meno decise, abili a comporre file ai gazebo da esibire sui telegiornali.
Tutta roba che si può fare, certo. Ma nel mondo reale ti asfaltano e hanno ragione. Specie se la maggior parte di quello che hai fatto lo hai fatto contro una parte piccola o grande del tuo elettorato. La lezione di Salvini, appunto.
Parlo del PD perchè sono un uomo di sinistra e sono convinto che finché il PD non sarà qualcosa più di un equivoco, qualsiasi cosa, anche un partito dichiaratamente moderato, non ci sarà la possibilità di costruire nulla.
In politica, oggi, mi pare che funzioni bene una cosa sola: la chiarezza. Le elezioni appena finite mi sembra lo dimostrino.
E smettiamola di dire che siamo un Paese di destra, un Paese di razzisti, che tanto la gente non legge, sono tutti ignoranti, pensano con la pancia, non sanno il congiuntivo, la consecutio temporum. Se anche fosse vero, cosa si fa? Non si fa politica? Non ci si presenta alle elezioni? Si fa il partito dei lettori, delle élite? La ridotta? La riserva indiana? E non sono sempre gli stessi, gli elettori? O diventano ignoranti bifolchi solo quando sulla scheda elettorale scelgono qualcun altro?
Ho sempre pensato che la politica fosse cambiare lo stato delle cose, secondo le proprio idee e con una visione del mondo e del futuro, un miglioramento.
Ecco, servirebbe averla, una visione di società, che guardi a domani e possibilmente a dopodomani. Che si preoccupi meno di posti e poltrone e governi e più di idee, costruzione, rappresentanza, innovazione. Che ascolti la gente, anche quando non ne condivide le idee.
Che consumi le corde vocali e non solo le dita sulla tastiera. Che non si occupi solo di tattica e strategia, ma di progettare.
Che sappia dove sta, qual è il suo recinto iniziale, chi vuole rappresentare. E che non cerchi mai di rappresentare tutti. Un partito non può avere vocazione maggioritaria per definizione.
Che abbia coraggio, perchè se c’è una cosa che dentro quel recinto non c’è stato in questi anni è proprio il coraggio. Renzi lo aveva, lo ha avuto, prima di farlo degenerare in spudoratezza.
Serve un partito che ripensi alle primarie. Che la smetta di uccidere se stesso e il suo elettorato.
Che non strizzi l’occhiolino all’avversario o lo aiuti a essere eletto, come ho visto fare in maniera indecente da una parte del partito alle ultime elezioni amministrative del piccolo paese in cui vivo.
Bisogna avere il coraggio di pensare da eroi per comportarsi da galantuomini appena appena passabili.
È la frase di un film, la pronuncia Sean Connery ne La Casa Russia, Le Carrè l’ha scritta nel romanzo da cui è tratto.
Ecco, io ripartirei da lì. Dopo aver fatto la pulizia che mi sembra doverosa.
(foto tratta da http://www.ilmediano.com/renzi-a-pompei-adesso-facciamo-notizia-per-i-restauri/)
