Uscito ieri sul Corriere della Sera di Bologna
Qualcosa è successo, non c’è dubbio. In un paese in cui la cultura è in cima alla lista delle voci da tagliare e vive dentro la politica come un corpo estraneo, metterla al centro del dibattito è una novità che merita attenzione. Il punto che fa più discutere è per forza piazza Maggiore. È il centro della città, il luogo simbolo, il punto di aggregazione per eccellenza. È possibile trattarla come un teatro? È possibile considerare quel posto come un palcoscenico su cui programmare una stagione, lunga o breve? È possibile che la politica e l’amministrazione si trasformino in qualche modo in direzione artistica? Sono tutte domande su cui, credo, bisognerebbe riflettere. La parola qualità mi lascia sempre un po’ perplesso. Non voglio discutere PJ Harvey, Leonard Cohen o Sonny Rollins. Finirei per smentirmi da solo. Mi chiedo però quale sia il criterio di qualità. Perché scegliere fra i Negramaro e i Modà, fra Carmen Consoli e Noemi (che esce da XFactor). Non credo alla rivalità fra intrattenimento e cultura. In un festival letterario possono coesistere Grisham e Yehoshua. Sarebbe come, per paradosso, che gli U2 potessero cantare One solo in un palco minimalista. Odio la parola contaminazione, però mi risulta bislacco che la discussione venga nel posto che ha ospitato un concerto in cui Dylan, Morandi, Dalla, Bocelli e due giovanissimi Samuele Bersani e Niccolò Fabi hanno cantato davanti al Papa. E siamo sicuri che le improvvisazioni di Keith Jarrett non condividano una parte di pubblico con Andrea Mingardi? Mi riesce difficile pensare che in una piazza come quella si debba entrare con le pattine. Il che non significa distruggere, sporcare, abbruttire, ma vivere. Sono abbastanza vecchio da ricordarmi la gara di salto con l’asta, sul crescentone, le tribune montate per un quadrangolare di basket o, per tornare agli eventi, le serate di “Vota la voce”, anche quella una trasmissione televisiva. Certo non la sagra della crescentina, con tutto il rispetto. E, se si tratta dell’iniziativa di una televisione o di un privato, non pagata con i (pochi) soldi pubblici. Concedere quel luogo ha anche un valore simbolico. Se Roberto Benigni e il conte Ugolino fossero stati programmati allo stadio, avrebbero ottenuto dieci volte il pubblico che c’era. Ma Benigni lì, in quel luogo, aveva un valore in più che andava oltre la possibilità di allargare la platea. Volendo usare un termine banale, potrebbe essere “messaggio”. Quello di Hey Joe, per esempio. Dare importanza a una manifestazione di beneficienza mi sembra un sintomo di attenzione, attenzione che passa ai cittadini e attenzione verso quello che fa parte della storia di questa città. La strage alla stazione, per esempio.  Se la piazza è la piazza, allora che l’evento, popolare o di elite, sia importante per Bologna, le dia visibilità, permetta di conoscerla a chi non l’ha mai vista. All’arena di Verona c’è posto per Aida, Ligabue, Notre Dame de Paris. All’assessore Ronchi va il merito di avere onestà intellettuale, un’idea e di proporla dritto per dritto. Stiamo discutendo di cosa dovrebbe essere la cultura a Bologna nei prossimi anni. Qualcuno si ricorda l’ultima volta in cui lo abbiamo fatto davvero?