Ci sono due canzoni che hanno un ruolo, nella storia de La puntualità del destino.
Della prima ho già parlato qui, della seconda parlerò presto.
Ce n’è un’altra, però, che non ha un posto preciso all’interno del racconto, ma che rappresenta un’idea che sta dietro alle parole, soprattutto con il verso ripetuto del ritornello.
C’è qualcuno vivo, là fuori?
C’è qualcuno vivo, là fuori?

Per un certo periodo di tempo, prima di cominciare a scrivere, mi sono capitate davanti agli occhi le immagini dell’undici settembre.
Sembrava un caso, saltava fuori dappertutto. In particolare il dopo.
I tabelloni con i nomi e le foto, sparsi per le strade di New York. Le foto dei dispersi, delle vittime quasi certe che famigliari, parenti e amici stavano ancora cercando. I messaggi di addio lasciati per terra, su cartelli improvvisati o attaccati ai muri. Pennarelli colorati, disegni, immagini, pupazzi, candele.
Un santuario laico e improvvisato, nato spontaneamente nel tentativo di esorcizzare in collettivo quello che non si poteva sopportare, prevedere, immaginare.
Quello a cui non era possibile resistere.
Lì, per la prima volta, mi sono reso conto che siamo la copia di mille riassunti.
Non avevo capito, prima, dove si trova l’inizio della deriva.
Ogni volta che accade un fatto di cronaca – Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea, Tommaso Onofri – compaiono gli altari.
Spuntano improvvisi, davanti alla casa in cui tutto è accaduto o in cui, in solitudine e in attesa, vive la famiglia.
Sono bambole, pupazzi, cartelli, foto, sono candele. Sembrano nascere dal nulla, piante che attecchiscono sul concime della paura, voltate dritte verso le telecamere, girasoli piazzati a favore dell’inquadratura.
Non accadeva prima. Prima dell’undici settembre, intendo.
E lì, aveva senso.
Siamo un Paese che ha vissuto molte tragedie collettive, che ha avuto un paio di undici settembre, sappiamo come funziona, sappiamo come resistere e reagire.
Quando il lutto è il rito collettivo di una nazione intera, ognuno concorre ad esorcizzarlo con la sua parte di dolore, di indignazione, di rabbia, di lacrime. E anche tornare, a distanza di anni o di giorni, sul luogo in cui tutto è accaduto – il world trade center, la stazione di Bologna, piazza Fontana – ha un significato che supera la curiosità e appartiene alla memoria.
Qui, però, stiamo parlando di altro.
Gli altari che costruiamo fuori dalle case del dolore, il pellegrinaggio sui luoghi in cui i cadaveri vengono ritrovati, il proliferare di angeli, bambole, versi di canzoni e poesie, foto ricordo, lacrime e preghiere, fiaccolate e processioni, mazzi di fiori lasciati a marcire sul cemento, sono la testimonianza di una malattia. Il sintomo più evidente di una perdita di contatto con la realtà che ci affligge tutti, in molti ambiti e con conseguenze evidenti e disastrose.
Ed è facile dare la colpa alla televisione, come è facile, in altri casi, dare la colpa alla politica. Siamo spettatori con un telecomando, elettori con la matita copiativa in mano.
E’ molto più difficile e doloroso pensare alla copia di quei riassunti, alla contraffazione della realtà che mettiamo in scena con quel teatro dell’assurdo.
La puntualità del destino comincia con la scomparsa di una ragazzina di quattordici anni.
Alessia scompare e quel circo monta le tende davanti alla casa dei genitori.
Guarda. Pretende. Desidera. Finge.
Per questo, il verso da cui sono partito.
C’è qualcuno vivo, là fuori?
O ci accontentiamo di vivere, giorno dopo giorno, una pessima imitazione della realtà?
Intanto, come se questo sito fosse una radio, ecco la canzone di Springsteen.
Versione live, da Rockfeller Plaza, prima della morte di Clarence Clemons.
E, più sotto, le altre puntate di avvicinamento all’uscita del romanzo.