Dicono che sia cominciato nel 1953.
Lei, l’origine di tutto, è una ragazza e la trovano sulla spiaggia. Dicono che sia un suicidio, ma non lo è. E’ chiaro quasi da subito. Dicono anche che è stato un incidente, ma non è vero nemmeno quello. L’hanno uccisa e i giornali cominciano a scrivere che c’è di mezzo un giro strano, un miscuglio di politica, sesso, sangue, potere e personaggi famosi. Ci si buttano a pesce, ci campano. Qualcuno raddoppia le vendite, qualcuno cresce solo di un terzo. La gente ne parla, ci sono processi, c’è chi pensa che gli imputati siano colpevoli, chi crede che siano innocenti, chi cambia idea anche più di una volta.
Alla fine la verità non si scopre, qualche vita ci rimane sotto, qualche carriera pure. Poi scatta il silenzio.
Qualcun altro dice che è cominciato nel 1981.
Allora durò poco più di un pomeriggio, me lo ricordo bene.
Il bambino aveva sei anni, il giorno in cui morì. E siamo rimasti tutti incollati a sperare che un finale a sorpresa sconvolgesse un destino che sapevamo certo.
Non è accaduto, il bambino è morto e col tempo abbiamo dimenticato.
Io non so quando sia cominciato, ne parlerò una delle prossime volte. Ma non credo sia successo né su quella spiaggia, né al buio di un pozzo artesiano.
Nel primo caso, c’era la voglia di capire, oltre la curiosità. Il desiderio di svelare il giallo, di trovare un colpevole, di scoprire la pentola del marcio e indovinare i contorni del male che aveva ucciso la ragazza. Nel secondo, ventotto anni dopo, c’era il dramma, la corsa contro il tempo, soprattutto la speranza, la rabbia contro un destino tragico e puntuale.
Oggi, non c’è speranza e non c’è curiosità.
Non c’è nulla da capire, quasi mai. Non c’è mistero, non c’è giallo, non c’è una fine da scongiurare, un conto alla rovescia da fermare prima che si azzeri.
Non cerchiamo un colpevole e la tragica serialità di quello che accade ha l’aspetto rassicurante del brivido che provi a sentirti raccontare sempre la stessa storia.
Non ci interessa capire, solo guardare. Sbirciare il dolore, fingere di provarlo, commuoverci fino alle lacrime – lacrime vere – nell’illusione di essere anche solo per un attimo nei panni di chi sta soffrendo, al centro della scena. Qualcosa a metà fra la catarsi e il morboso desiderio di soffrire senza la sofferenza.
Nel 1953 eravamo in piedi, ci aggiravamo per la stanza in cerca di tracce, potevamo anche concederci un’occhiata indiscreta, a sbirciare una macchia di sangue, una giarrettiera, qualche centimetro di pelle scoperta o una foto appena un po’ audace, ma volevamo sapere. La partigianeria è venuta dopo.
Nell’ottantuno avevamo appoggiato il sedere sull’orlo della sedia, le ginocchia piegate, le unghie rosicchiate, le mani strette una all’altra, per scongiurare l’impotenza, il desiderio di poter fare qualcosa, trovare una soluzione, un modo, un’idea geniale che salvasse il bambino.
Oggi siamo seduti in poltrona, sdraiati sul divano, ci siamo procurati le palette per dare i voti, gonfi del diritto acquisito di giudicare l’ingiudicabile.
Anche da quelle poltrone, dai nostri culi pesanti e ammansiti, in bilico fra il pop corn, l’anestetico e la vivisezione è nato La puntualità del destino.
Ne riparliamo la prossima settimana.
Non ho ancora deciso se è il turno degli angeli, delle candele o di San Sebastiano degli Appennini.