civatiAnche se qualcuno dice che uno scrittore dovrebbe occuparsi di libri e cultura e non di politica, continuo a pensare di essere come prima cosa un cittadino.
Occuparsi di politica, anche in pubblico e specie in tempi fangosi come questi, dovrebbe essere un dovere, un tributo necessario e fondamentale al recupero del senso civico, in questo Paese campione di nascondino.
Domenica, finalmente, ci sono le primarie del PD e questa volta vivo la scadenza elettorale in maniera diversa, quasi da apolide, forse perché senza cittadinanza politica mi sembra il partito che organizza le primarie e vorrei che, in un modo o nell’altro, la scadenza dell’otto dicembre servisse a stabilirla.
Non sono un fanatico del voto utile eppure ho sempre creduto che sostenere una posizione minoritaria, residuale, dura e pura, servisse solo a sentirsi fra i migliori, distanti dallo schifo del mondo che, malgrado tutto, continua a seguire la propria strada. Mi è sempre parso più produttivo mediare – non è questo lo scopo della politica? – fra idee diverse, progetti diversi, per spostare un po’ alla volta il peso dei risultati.
Da mesi ci balocchiamo con le larghe intese, con o senza B, ma per amore di chiarezza e per evitare di sostenere ancora posizioni indifendibili, sarebbe il momento di dire che il PD è una larga intesa, un sodalizio incompleto, nato forse prematuro, per necessità e che per necessità ha continuato a tenere insieme posizioni troppo diverse, senza decidersi a trovare una quadra, un punto fermo che orientasse gli elettori. Se pensate che è nato con all’interno la Binetti e gli ex DS, Fioroni e Bersani, gente vicina a SEL e altri davvero prossimi a Casini, non è un risultato che sorprende.
Su una cosa sola siamo sempre stati d’accordo. Bisognava battere Berlusconi.
E’ in nome di quell’avversario impronunciabile che il partito è nato con questa composizione, perché, diciamolo chiaro, in un Paese europeo a scelta ci sarebbe una forza di sinistra, socialista, socialdemocratica (PSF, SPD) e una di centro destra e una parte di quello che oggi è il PD starebbe in un luogo diverso. Qui, però, c’è Berlusconi e non uso il presente a caso. Berlusconi si è mangiato i moderati (se sono mai esistiti), ha sbranato il centro, diviso la lotta politica in una questione da curve, o sei Berlusconi o sei altro da Berlusconi. Lo ha fatto in nome di un consenso spaventoso, mantenuto in modi che conosciamo, nel Paese che conosciamo, un consenso che sta implodendo insieme al declino giudiziario, politico e fisico del suo leader unico.
Un blocco ingombrante, che oltre alla sua parte politica, ha finito per divorare con lentezza anche tutto quello che di sinistra restava, diluito nella necessità di alleanze discutibili per combattere il Caimano o in una protesta spesso lontana dalla realtà che ha cibato un altro cannibale, Grillo. Di sinistra, negli anni, al PD è rimasta l’origine, una parvenza, un ricordo, come un aristocratico deluso che ogni tanto mostra i gioielli di famiglia, una foto di Berlinguer (che rimpiangiamo, ma non voteremmo), una citazione di Pertini, una bandiera esposta a un corteo, qualche filmato in bianco e nero.
Così, un partito con un elettorato potenziale chiarissimo ha finito per diventare un blob indefinito, schiacciato da un lato dallo strapotere populista di B, dall’altro dal peso terrorizzante di essere l’ultima associazione democratica rimasta, l’ultimo partito italiano, l’ultimo dinosauro, lento, impacciato, a sostenere con la forza dei suoi voti sempre più striminziti il peso di tutta la casa, incapace di farsi capire da chi (anche con eccesso di fedeltà) lo ha votato e incapace di restituire qualche risultato che facesse sentire utile quel voto che un elettore sempre meno convinto confermava negli anni.
Un partito che è nato e morto su due peccati originali, figli entrambi di lotte di potere giocate sulla pelle del resto del mondo e di un simbolo.
Il Lingotto che affossò il fragilissimo Prodi 2 e l’elezione del presidente della Repubblica, il capolavoro anti-comunicativo, da manuale di come la politica non dovrebbe essere, il colpo alla tempia all’idea di PD, nei giorni in cui cambiare era ancora possibile, l’unione di interessi contrapposti, vendette, lotte di potere vecchie e nuovissime, giocate sulla pelle di una svolta realizzabile e di Romano Prodi.
Un partito che uccide senza remore, per tre volte, il suo fondatore, è un partito che non esiste più e che va rimesso insieme su basi diverse, con persone diverse, con quella chiarezza che non c’è mai stata, a partire dal primo giorno. Una chiarezza che c’era, probabilmente, nell’idea di PD, ma di cui non si è mai trovata traccia nella realizzazione pratica.
Il partito che vorrei è un partito di sinistra, che non usa la parola – sinistra – come un brand da appiccicare su una scatola vuota, ma la declina secondo il suo significato, secondo i suoi valori, mai attuali come oggi, gli anni della disuguaglianza sociale, del fastidio per gli ultimi, delle tasse esagerate pagate da chi non ce la fa e evase alla morte da chi le potrebbe pagare, dello spreco, della politica che è solo far carriera, del lavoro che manca o svanisce dalla mattina alla sera.
Recuperare una parola perché fa comodo, perché se ne capisce la portata elettorale, il desiderio quasi commerciale da parte dei potenziali votanti e poi utilizzarla per la conservazione del potere o per politiche che di sinistra non hanno nulla e di cui la storia ha decretato il fallimento o per ricostruire un centro democristiano di cui nessuno sente il bisogno se non chi ne rivorrebbe i voti – in Italia chi ha più offerta politica dei moderati? – sarebbe solo il modo migliore per consegnare per sempre il Paese a una diarchia fra centro destra e centro, con qualche spruzzata di sinistra a mo’ di belletto, e una larga parte di elettorato all’astensione o all’urlo sguaiato di chi non trova di meglio che sfoderare metafore sempre più funerarie.
Il PD che vorrei è un partito che si preoccupa di quanti voti ha perso, del motivo per cui li ha persi, che si rimbocca le maniche per recuperarli, tutti quelli che si può, bussando casa per casa, convincendo elettore per elettore, ricominciando a fare politica, capendo che la gente bisogna ascoltarla e non solo cooptarla, bisogna guardarla in faccia tutti i giorni e anche contraddirla quando dice fesserie, ma non la puoi usare come una qualsiasi comparsa berlusconiana, da mettere in fila il giorno delle primarie, ordinata e sorridente dietro belle parole e speranze e poi abbandonarla con spocchia un istante dopo.
Il PD che vorrei ha un’identità, la riconosce, la rivendica e proprio perché la rivendica va a cercare quei voti persi, li desidera, li implora, parte da quelli e non dai delusi del PDL, perché cercare i delusi della destra vuol dire mancare di rispetto ai tuoi elettori e spostare il partito da un’altra parte.
Non si può, allo stesso tempo, dire che si è di sinistra, pensare al Partito Socialista Europeo e flirtare con chi per vent’anni ha votato Berlusconi. E’ l’errore di cui siamo morti.
La politica deve sapere da che parte stare, con il culo su due sedie si vola per terra.
Il PD che vorrei, però, è una sinistra che sa in che epoca storica vive.
Che parla di diritti sapendo di cosa parla e dimenticando se prega e per chi prega.
Un partito che se parla di lotta di classe non pensa al padrone dell’Ottocento, che si rende conto che l’imprenditore non è la multinazionale e spesso sta male quanto il suo dipendente, che trova un modo per dialogare con le partita IVA, che specifica chiaramente che non vuole il voto di chi evade le tasse, perché non farà nulla per agevolarlo, ma allo stesso tempo non considera tutti i lavoratori autonomi evasori o gli imprenditori degli affama popolo.
Che precisa leggi e regole giuste, non punitive, ma non derogabili, nel partito (le deroghe alle eleggibilità o i cambiamenti continui di regole delle primarie fanno almeno sorridere), nella politica, nella società. E non nella società teorica che si vede dall’interno dei Palazzi, ma in quella reale, che spegne la sveglia e alza la serranda tutte le mattine.
Non posso votare per chi insulta o ignora il sindacato.
E non perché il sindacato non abbia colpe, ne ha, enormi e andrebbe riformato, ripensato, anche quello spostato da un secolo all’altro, ma perché la CGIL rappresenta i tuoi elettori, quelli che ti votano o dovrebbero votarti e puoi non essere d’accordo con la sua politica, ma non puoi trattarli come un Sacconi qualsiasi. Maurizio Landini non ha sempre ragione, ma con Marchionne ce l’aveva, lo dice la Costituzione, prima dei tribunali e la FIOM, in tanti casi, è stata l’unica voce a cui l’operaio poteva rivolgersi, a meno di non voler regalare la sua rappresentanza sempre di più a Grillo.
Il PD che vorrei non è il partito della CGIL, non le dà ragione per principio, ma neppure torto per principio.
Il PD che vorrei è un partito di persone, un partito che crede che noi sia prima persona plurale e non pluralia maiestatis, è un partito che ha un leader e non è il partito di un leader. E’ il partito che ha il coraggio di mettere da parte chi ha fatto il suo tempo, chi ha perso, in buona o cattiva fede, e andare avanti, è un partito in cui le opinioni non cambiano dalla mattina alla sera e MAI per un sondaggio o per l’umore della gente, ma che si muove su convinzioni salde, ragionate, politiche.
L’umore della gente cambia alla svelta, si serve della pancia e non della testa e sceglie spesso Barabba.
Vorrei un partito con idee così forti da spostare quelle della gente.
Un remo su una barca solida, non una boa, un partito di persone, davvero, sul serio e non l’unità di misura di un ego o il recinto in cui mantenere posizioni di potere inutili se non dannose.
Un partito che non ha paura della sua gente, nemmeno quando deve chiedere scusa, che trova le parole per spiegarsi, per condividere, che non scappa, che ascolta, che litiga, perché con la gente c’è bisogno anche di litigare.
Il PD che vorrei pensa che con la cultura si mangia e con la scuola si formano più cittadini che con un missile o un reality o uno slogan.
Un partito in cui il merito non è accodarsi al nuovo che avanza, smentendo se stessi e la propria storia politica e personale per una nuova targhetta di ottone da appendere sulla porta del prossimo ufficio, un partito che smette di preoccuparsi di come vincere e comincia a preoccuparsi di cosa deve essere, capendo finalmente che una proposta politica chiara ha più possibilità di successo e di durata che un gruppo di compagni di strada con lingue così diverse da non poter stare insieme più di una campagna elettorale.
IL PD che vorrei è un partito che chiude con gli anni Ottanta, per sempre, e non replica un revival proprio nei giorni in cui Berlusconi comincia a calare, un partito che per la prima volta non lo insegue e non se ne preoccupa e lo fa con la politica e con la comunicazione, con l’identità culturale, in fondo, perchè è stata anche l’assenza di identità culturale a portarci dove siamo, annegati in litri di liquame maleodorante.
Un partito che si renda conto che Grillo è solo la risposta sbagliata, peggiore, più semplice, a una serie di domande giuste.
Domande a cui si deve dare risposta, perchè una risposta possibile c’è sempre stata.
Basterebbe solo un po’ di coraggio.
Per questo domenica voterò Pippo Civati e per questo credo sia giusto dirlo, non soltanto farlo.
Perchè non esiste nessun partito tranne il PD che possa cambiare questo ameno paesello e non esiste nessun altro che possa farlo, nel PD, tranne Pippo Civati.
Perchè credo che avere un’idea precisa, in politica, sia l’antidoto migliore contro l’arroganza di un populismo, è l’assenza di idee precise – dall’elezione di Prodi a Alfano, dalla Cancellieri all’IMU, solo per citare le ultime uscite – che ci ha fatti ammalare.
Perchè vorrei un partito come quello che ho descritto o almeno iniziare una strada che arrivi lì e per farlo bisogna cambiare, cambiare la testa e le persone, un cambiamento che non può fare nessun altro, visto che la classe dirigente di oggi è schierata in truppe ordinate alle spalle di Cuperlo e Renzi, ansiosa di mantenere la sua posizione, ottenerne una migliore o, semplicemente, impedire la vittoria altrui.
In molti, anche amici che stimo, continuano a dirmi che non ha senso votare per uno che non vincerà, che è chiaro che vince Renzi e che, comunque, è Renzi che potrà mandare via tutto il vecchio che c’è e da lì ricominciare. Quindi, malgrado condividano molte delle idee di Civati, non lo voteranno. Un ragionamento da perfetta real politik, in un certo senso non fa una piega.
Ma è un ragionamento che mi ha stancato, perché il PD ha abusato della mia pazienza e ora pretenderebbe di farlo ancora, prima nel nome della lotta a B e ora nella pretesa vittoria di Renzi, tutta da dimostrare. Così, quando ne ho voglia, chiedo di guardare gli schieramenti e gli uomini e rispondo che anche il Cagliari ha vinto lo scudetto e il Verona e la Sampdoria e la Danimarca gli Europei e Francesca Schiavone il Roland Garros e Marion Bartoli Wimbledon e The Artist l’Oscar e che alle scorse politiche avevamo già vinto e invece Grillo ha preso il 25%.
Rispondo che è vero, che probabilmente vincerà Renzi, ma Renzi non mi rappresenta, non mi convince l’uomo, i modi, la sua politica, mi sembra molto vecchio e non nuovo e Cuperlo è una persona di una cultura straordinaria, ma ha i compagni di viaggio che ha e non posso votare per chi non mi rappresenta o non mi convince o per chi fa parte di un gruppo dirigente che, con oneri ed onori, va cambiato, perchè il voto è una cosa seria, non una scommessa. Rispondo che, qui e ora, per la prima volta dopo molto tempo, voterò per un uomo che ha la mia stessa idea di politica e lo voterò contento di farlo, lo farò perchè non è una possibilità di sinistra, ma l’unica possibilità di sinistra che non mi sembri marketing o conservazione, lo voterò perchè stiamo eleggendo il segretario del PD, non il leader di una coalizione politica che non abbiamo nemmeno cominciato a costruire, per elezioni politiche che non sappiamo quando si terranno e lo voterò perchè, dopo anni di stenti e di rospi mal digeriti, mi importa sapere che cosa si vince a fare, cosa accade il giorno dopo, quale progetto ci porterà a palazzo Chigi.
Se mi fosse importato vincere a tutti i costi avrei votato Berlusconi.
Potete pensare che sia un sognatore, diceva quello.
E’ probabile che abbiano ragione e io torto.
Ma per una volta sentirò di fare la cosa giusta fino in fondo. E di averci provato.
Al giorno dopo, penserò il giorno dopo.