Uscito sul Corriere della Sera di Bologna, venerdì 1 luglio
L’uomo è vestito di nero. È in piedi su una gamba sola e non è nemmeno un uomo. Solo un’ombra, il contorno di un suono, l’accenno di una forma che dal nulla si attacca alla gola e alla pelle della folla che lo aspettando. Dice che è pronto, pronto per il gas esilarante, pronto per quello che succederà, pronto a tuffarsi e immergersi, pronto a dire che è felice di essere vivo. La sagoma di Bono, pelle nera, stivali, gli occhiali della mosca, che spezza le immagini ripetute e ossessive di decine di schermi televisivi è un ricordo che dura da vent’anni. Era l’estate del 1993, il tour delle canzoni berlinesi e di Zooropa costruito in viaggio. Forse l’ultima, per quanto mi riguarda, di quando gli U2 erano ancora gli U2. Tredici anni prima, sotto la curva opposta dello stesso Dall’Ara, c’è un altro palco. Niente schermi, niente Trabant appese al nulla. Una donna di trentatre anni vestita di scuro, i capelli e lo sguardo senza tempo che le ritrovi in faccia ancora oggi. Non ha ancora urlato che il potere è della gente, ma sono in cinquantamila e se avete mai chiesto a qualcuno che c’era di raccontare il suo incontro con Patti Smith, il 9 settembre del 1979, avrete sentito il racconto di qualcosa che finiva lì, quella sera e che non se n’è più andato nel resto della vita. Cercate da qualche parte le vecchie foto del pomeriggio, in Piazza Maggiore, le moto parcheggiate, i capelli lunghi, l’attesa da snocciolare con calma, perché comunque finirà. Un anno più tardi, su quella stessa piazza, ci saranno i Clash, “London calling” e mezza Italia. Può sembrare un discorso retorico o, peggio ancora, nostalgico, ma c’è stato un tempo in cui si ascoltava musica, da queste parti. Un tempo in cui, se volevi ascoltare qualcuno non avevi bisogno di caricare la tua stanchezza su un treno o sfidare la coda in autostrada. Bastava avere pazienza, aspettare, a volte godersi una coda scalmanata ad orari da spazzini, ma la musica veniva a trovare te. E lo faceva per un motivo semplice. Qui si trovava bene. C’è un grado zero della discussione sugli eventi a cui appartiene il dibattito che si è aperto nelle ultime settimane. La natura dell’evento stesso, appunto. La grandezza, l’importanza non solo locale, ma almeno nazionale. La data zero o la data unica. Il luogo in cui costruire e che cosa costruire. Poi c’è un livello successivo, che dovrebbe andare più a fondo e che tocca nel vivo le abitudini, i vizi e anche i malanni di questa città. Si troverebbe ancora bene la musica a Bologna? Si sentirebbe a casa? Lasciamo stare Vasco, che per ovvi motivi ha con noi un rapporto diverso e dimentichiamo per un giorno anche le polemiche sulla piazza. Proviamo a farci una domanda. La vorremmo di nuovo piena? Siamo disposti a sopportare un po’ per riavere indietro quei momenti? E fino a che punto?  Forse vale la pena chiedersi se siamo ancora la città della musica, proprio adesso che il riconoscimento è ufficiale, ce lo ha dato l’UNESCO e, azzardo, ce lo ha dato anche per quei concerti là, da “Because the night” a “One”. Qualche anno fa, per esempio, il tour italiano di Bruce Springsteen passava rigorosamente da Casalecchio o dallo stadio. Era spesso solo un problema di condizione climatica. Sono cinque anni che non si vede. L’ultima volta che ho sentito suonare quel genio di Clarence Clemons ero a Udine. E a Udine sono passati i Pearl Jam, che proprio in quel tour italiano del 1993, di Bono e compagni facevano i supporter. E sempre in Friuli è capitata Madonna, gli AC/DC. Altra collocazione geografica, si potrebbe dire. Vero. Ma invidio parecchio Firenze, che a metà settembre si beccherà George Michael in piazza Santa Croce. Qualche giorno fa, per un disguido burocratico, il concerto di Cristina Donà (non proprio l’ultima arrivata) al Botanique viene stoppato alle ventitre e, prima, amplificato come il sottofondo di un piano bar. Ma non credo si possa dire che la musica dell’artista lombarda abbia qualcosa in comune col frastuono. Sono anni che rimpiangiamo la Bologna di secoli fa, anni spesi a guardarci l’ombelico alla caccia di quell’atmosfera, cercando la macchina del tempo o la lampada magica che ci restituisca quello che siamo stati. Forse, proprio in nome di quella nostalgia e per rendere più concreto un rimpianto altrimenti sterile, varrebbe la pena chiedersi cosa siamo disposti a fare per tornare quelli. O se, di quella Bologna che credeva di sognare,  è rimasto qualcosa in quella che oggi tenta di diventare un’artista del lamento.